In occasione del compleanno di Nick Cave, ripercorriamo la sua produzione di canzoni d’amore dagli esordi a oggi.
Ci sono figure a cavallo tra mondi, fatalmente irrequiete e incapaci di aderire a un solo tempo, a una sola forma, e in questa consunzione dettata dall’impossibilità di placare i propri fantasmi, trovano una loro grandezza. È il caso di Nick Cave, nato Nicholas Edward Cave in una cittadina dal nome impronunciabile, Warracknabeal, nella provincia australiana di Victoria, nel settembre del 1957; figlio di un insegnante di lettere e matematica, Colin, e di una bibliotecaria, Dawn, ex eroinomane e cantautore innamorato del blues, della Bibbia e delle donne dalla pelle bianca e i capelli neri.
«Padre, padre, dove stai andando?
Oh, non camminare così forte.
Parla padre, parla al tuo bambino,
o altrimenti sarò perso»
La notte era scura, nessun padre c’era;
il bambino era bagnato di rugiada;
il fango era fondo, il bambino pianse;
e la nebbia volò via.
William Blake, Il bambino perduto
Cave cresce guardando alla tv lo show di Johnny Cash e canta (male, anzi malissimo) nel coro dell’”orribile” cittadina di Wangaratta, come la definirà nel biopic 20.000 Days on Earth. È un ragazzo interessato all’arte, ai cowboys, dall’ego già esuberante e smanioso. Nello stesso documentario, l’artista rievoca la sua prima esperienza sessuale, avvenuta a 15 anni con “una ragazza con i capelli neri e il volto bianchissimo. Si truccava e si dipingeva le labbra come nel teatro Kabuki”, e ancora “ero ammaliato da quella strana, meravigliosa ragazza”. Quell’incontro riverbererà nel tempo come se quella ragazza fosse la prefigurazione di amori futuri: Anita, Elizabeth, Viviane, Polly Jean, Susie e tutte le donne al centro di storie fugaci e clandestine che accompagneranno la sua turbinosa carriera, donne da adorare e tradire e ricordare nel rimpianto, a cui spedire una lettera dolente, come in Slowly Goes the Night, brano contenuto in Tender Pray del 1988: “O darling forgive me / For all the misery yeah / I embrace an empty space / And your laughing song it fades / Where goes it? / It goes some place / Where it’s lonely”.
I sogni e gli incubi di un adolescente ombroso e ribelle, desideroso di dismettere la propria pelle anonima e diventare un artista a tutti gli effetti, si scontrano con una realtà percepita come conformista. Cave viene mandato a studiare alla Caulfield Grammar School a Melbourne, dove incontra Mike Harvey (che diventerà il suo più duraturo collaboratore, nonché polistrumentista e arrangiatore) e quelli che saranno i membri della sua futura band. I due amici fondano il primo gruppo, i Concrete Vulture, che poi diventeranno i The Boys Next Door. Tra sbronze moleste e vandalismi, Cave subisce il primo, grave lutto della sua vita: a diciannove anni, mentre è oggetto di un fermo dalla polizia per un furto, apprende la notizia della morte del padre Colin in un incidente stradale. L’esperienza lo segna profondamente e verrà rievocata spesso durante la sua carriera, alimentando i suoi tormenti interiori.
La band intanto si fa notare per la furia provocatoria e per una genuina energia innovativa – tra gli idoli di Cave ci sono gli Stooges, David Bowie, Alice Cooper e Lou Reed – e gira il paese fino al 1980, anno della fuga dalla sonnolenta Melbourne, alla ricerca di nuovi stimoli e di un mondo creativo che li accolga. Le illusioni di Cave, che ha abbandonato definitivamente gli studi d’arte, e dei membri del gruppo si infrangono subito contro la miseria, i lavori precari a cui si trovano costretti e una scena musicale deludente, che vive di facili estetismi dopo la furiosa stagione del punk. La band cerca una nuova identità e nascono i The Birthday Party, sperimentando sonorità più mature, atmosfere claustrofobiche e una presenza scenica altamente teatrale, influenzata dalle esperienze performative dell’epoca e dall’uso di droghe. Sono questi gli anni della collaborazione con Lydia Lunch, figura di riferimento della scena no wave newyorkese, con cui stabilirà un rapporto creativo complicato, e di Anita Lane, la musa giovanile: lui ha diciannove anni, lei diciassette, entrambi devoti all’arte, alla musica, all’alcool e alla droga. La ragazza dai capelli rossi e l’aria innocente lo folgora e la loro relazione dura dal 1976 al 1984; per Cave è fonte costante di ispirazione e ritorna nelle canzoni, in veste di figure femminili sospese tra desiderio e distruzione. Cave le dedica Six-Inch Gold Blade, canzone che racconta del brutale assassinio di una ragazza, un tema tra i più ricorrenti della sua futura produzione. Un omaggio all’insegna dell’umorismo nero e del gusto della provocazione più feroce, tratti della personalità dell’artista con cui Lane ha un rapporto complicato. La ragazza rappresenta una musa, un’amante e un’amica, e malgrado le asprezze del carattere di Cave, i suoi egocentrismi e il perenne stato di alterazione dovuto al consumo di stupefacenti – che in realtà non intaccherà mai la dedizione al lavoro e la capacità produttiva dell’artista -, i due portano avanti una lunga relazione sentimentale alimentata da una comune spinta creativa.
This desire to possess her is a wound / and its naggin at me like a shrew but, Ah know, that to possess her / is, therefore, not to desire her
From her to eternity
La fine della loro storia arriva nel 1986, per desiderio della donna. La chiusura non segna però un distacco definitivo e Lane accetta comunque di far parte del nuovo gruppo che nasce dalle ceneri dei The Birthday Party: i Bad Seeds. Del gruppo fanno parte il bassista Barry Adamson, il chitarrista Hugo Race, Mick Harvey e Blixa Bargeld. Con loro eleggerà a luogo d’elezione Berlino, una città accogliente e piena di stimoli, dove potrà trovare una scena musicale ricettiva e quell’inclusività che manca all’algida Londra.
Il rapporto artistico e affettivo tra Cave e Lane, tra alti e bassi, continua. Con i Bad Seed, Cave pubblica nel 1984 il suo primo album solista, From her to eternity: la “her” del titolo è naturalmente Lane, che influenza profondamente la creazione dell’album ed è evocata anche nelle strofe di Cabin Fever, canzone ispirata a Moby Dick di Melville. Lane sarà una figura di riferimento anche negli anni a venire e non uscirà mai davvero dalla galassia dell’artista, collaborando alle canzoni o riflessa nei testi. Con questo album, Cave sviluppa una dimensione narrativa ben più ambiziosa del passato, e un afflato epico spinge brani dagli echi blues, tra Leonard Cohen e Mark Twain, William Faulkner e Flannery O’Connor, Tom Waits e Johnny Cash, dove linguaggio poetico e violenza trovano un nuovo equilibrio. Merito anche dell’ingresso di Blixa Bargeld, chitarrista e sperimentatore geniale già fondatore degli Einstürzende Neubauten, gruppo che ha avuto il merito di portare il genere industrial fuori dalla nicchia in cui era relegato.
Le canzoni di Cave possiedono una tensione spirituale che è amplificata dal contrasto con gli elementi più oscuri di un immaginario gotico, visibile anche nella produzione grafica che si sviluppa parallelamente al discorso musicale (suoi riferimenti sono l’espressionismo tedesco, Tiziano, El Greco, Velásquez, Brett Whiteley). Tutta la sua discografia rigurgita simboli religiosi, richiami alla tradizione letteraria popolare, atmosfere notturne, angeli e amori brucianti, che trovano spazio, sublimandosi, nei versi delle sue composizioni, che celebrano un “matrimonio del Cielo e l’Inferno”, per citare William Blake.
Down the road I look and there runs Mary / Hair of gold and lips like cherries / We go down to the river where the willows weep / Take a naked root for a lovers seat / That rose out of the bitten soil/ But sound to the ground by creeping ivy coils/ O Mary you have seduced my soul / And I don’t know right from wrong / Forever a hostage of your child’s world
Sad Waters
Ma tutto è destinato a finire e anche la stagione di Lane si conclude, così come il periodo berlinese. Cave, dopo anni di tossicodipendenza, chiude con l’eroina e va in tour in Brasile. Si innamora del paese, dei luoghi e di Viviane Carneiro, un’art director dai capelli neri che lo strega con la sua eleganza e che sposerà nel 1990. L’amicizia con Lane rimane intatta, malgrado la sofferenza per la rottura accusata soprattutto dalla ragazza, mentre Cave è completamente assorbito dalla nuova passione e dal romanzo And the Ass Saw the Angel (E l’asina vide l’angelo), un progetto a cui ha lavorato per anni e che vende, a dispetto delle previsioni, ben trentamila copie. Tornato in Brasile, consolida la relazione con Viviane: con lei trascorre un periodo felice a San Paolo durante il quale nasce il figlio Luke – pochi giorni prima nasce anche Jethro, figlio della modella Beau Lazenby ma che non vedrà il padre fino a otto anni – un periodo di felicità che si traduce in uno stile compositivo più diretto da cui nasceranno The Good Son (1990) e anche il successivo Henry’s dream. Nei due album “brasiliani” non c’è comunque spazio per alcuna gioia, anzi prende corpo una visione crepuscolare, dove predomina la desolazione di un paese lacerato dalla miseria e dall’orrore degli squadroni della morte e delle favelas. Due canzoni importanti fanno riferimento agli amori di Cave: Lucy e Lament, nel quale si intravede soprattutto il fantasma di Lane ma anche la figura di Viviane:
I’ll miss your urchin smile, your orphan tears / Your shining prize, your tiny cries, your little fears / And I’ll miss your fairground hair, your seaside eyes / Your little truth, your vampire tooth and your tiny lies / So dry your eyes / And turn your head away / Now there’s nothing more to say / Now you’re gone away
Nel 1992 il cantautore australiano torna a Londra. Ha pensato di poter essere felice nella malinconia tropicale, immerso nelle stagioni infinite di un luogo che musicalmente rappresenta una sorta di paradiso della mescolanza, eppure San Paolo lo ha tradito e, alla fine, lo ha lasciato solo. Le persone conosciute si sono via via allontanate, la sua casa, il quartiere e il pub che ha frequentato si sono trasformati in buon retiro dal mondo, ma qualcosa si è incrinato e l’entusiasmo per la città si è spento. Decide perciò di riparare a Londra, un luogo che negli anni ha odiato ma dove oggi, alla luce del suo nuovo status di rock star, può vivere agiatamente, dove può crescere i figli insieme a Viviane e dove ritrovare gli amici storici. Il 1994 è l’anno di Let Love In, primo album di un’ideale trilogia di cui fanno parte i successivi The Murder Ballads e The Boatman’s Call, disco dagli echi coheniani in cui il sentimento dell’amore si dispiega e si mette a nudo senza espedienti, attraverso canzoni a tratti scioccanti come Do you love me? In cui Cave racconta di un’iniziazione erotica e della capacità di segnare per sempre gli individui, attraverso una canzone in due parti, nella quale parla di un rapporto che oscilla tra amore e terrore e di un ragazzo violentato da un pedofilo nella sala di un cinema. Let Love In si rivelerà anche il più importante successo commerciale della carriera dell’artista fino a quel momento e il preludio al capolavoro che arriverà due anni dopo, dove la sua ossessione per la morte violenta troverà una forma compiuta.
Malgrado il matrimonio e i due figli, anche la relazione con Viviane naufraga. Nello stesso anno in cui i due divorziano, l’artista pubblica Murder Ballads, dove rivisita l’antica tradizione musicale anglosassone delle “ballate degli assassini”, canzoni che narrano storie di omicidi, spesso utilizzando l’espediente retorico del racconto in prima persona, ricche di dettagli efferati e – tavolta – conclusione sul patibolo. Un genere in cui si sono cimentati anche autori di riferimento di Cave come Johnny Cash, Bob Dylan, Tom Waits, Bruce Springsteen, che occupa l’immaginario dell’artista sin dagli esordi. Mescolando il portato del folk anglosassone alla tradizione afroamericana, con una ricerca linguistica e sonora del tutto originale, compone un album dove la canzone d’amore si intreccia ancora una volta alla violenza e alla morte. Se canzoni come Deep in the Wood gli erano già costate accuse di misoginia, Murder Ballads ha un grado di sofisticazione che lo mette al riparo dagli strali del pubblico più sensibile ai temi del politicamente corretto, una questione per il momento ancora lontana dall’essere in cima all’agenda del dibattito pubblico. Nel disco il romanticismo nero di Cave è illuminato da fugaci raggi di luce, come in The Kindness of a Stranger, con la voce di Lane a fare i cori, e nei due singoli che trasformano Cave da intellettuale underground a rockstar in “heavy rotation” su MTV e gli regalano la nomination come miglior artista maschile dell’anno (titolo che l’artista rifiuterà pubblicamente scrivendo una lettera ironica e ringraziando il colosso musicale per averlo ignorato per anni).
Il pezzo che trascina l’intero l’album è Where the Wild Roses Grow, che sviluppa le atmosfere di Sad Water e le tinge di sangue. Nel duetto, la superstar pop Kylie Minogue presta la voce alla figura angelica di Elisa Day, la ragazza che viene assassinata dal proprio amante
They call me The Wild Rose / But my name was Elisa Day / Why they call me it I do not know / For my name was Elisa Day
e che nel video musicale appare come l’Ofelia di John Everett Millais. Cave attendeva da anni l’occasione per proporre un pezzo a Kylie, dalla quale pare fosse ossessionato, tanto da pubblicare nel 2009 il suo secondo romanzo intitolato La morte di Bunny Munro, al centro del quale vi è il rapporto tra un commesso viaggiatore erotomane, tormentato dalle fantasie su Kylie Minogue e Avril Lavigne, e il figlio adolescente.
Kylie è l’incarnazione dell’innocenza, una creatura appartenente al regno fantastico, sospesa tra le reminiscenze dello Shakespeare del Sogno di una notte di mezza estate e le donne dei fumetti erotici. Malgrado la fascinazione subìta da Cave, la popstar non si trasformerà mai in un’amante ma diventerà un’amica. Il coup de foudre arriverà invece con una scarna ragazza del Dorset, cantautrice con lo stesso grado di oscurità di Cave e un talento altrettanto puro: PJ Harvey. Nel 1996 l’artista inglese ha già pubblicato tre album, Dry (1992), Rid of me (1993) e To Bring you My Love (1995), quest’ultimo che la impone come una delle voci più intense del rock d’autore degli anni ’90, passando dalla figura abrasiva e riottosa della rocker di provincia ai panni della dark lady. PJ è una bellezza anomala, dalla presenza scenica potente malgrado la figura esile, capace di dominare il palco con un magnetismo che contraddice la timidezza e l’esitazione che esibisce nelle interviste. Una timidezza che ricorda quella di Cave, tanto padrone della scena quanto a disagio nelle relazioni sociali. I due si incontrano per realizzare la cover di Henry Lee e sul set del video accade l’imponderabile, un’attrazione immediata e fortissima, come l’artista racconta in un’intervista al The Guardian. Sono come due corpi celesti lontani che si attraggono e finiscono per gravitare nella stessa orbita, fino a scontrarsi. Ne scaturirà un buco nero.
L’impianto del video è molto semplice: una stanza con un fondale verde scuro, i due protagonisti seduti di fronte all’altro, vestiti allo stesso modo, con completo nero e camicia bianca. Nient’altro. Le note del pianoforte introducono la prima strofa intonata da PJ, che invita Henry Lee a trascorrere la notte con lei, mentre Cave risponde con la sua voce di tenebra, rifiutando le sue profferte:
Get down, get down, little Henry Lee / And stay all night with me / You won’t find a girl in this damn world / That will compare with me
La ballata gioca sul contrasto tra la delicatezza del controcanto di PJ, a tratti soave, e l’efferatezza del racconto: questa volta è proprio Henry Lee a essere ucciso dall’amante delusa
And with a little pen-knife held in her hand / She plugged him through and through
e la cronaca del delitto rispetta pienamente il canone del cantautore, in equilibro tra orrore e innocenza, tra desiderio carnale e afflato spirituale.
Lie there, lie there, little Henry Lee / Till the flesh drops from your bones
Quello che però rende Henry Lee un brano differente da molti altri è proprio l’intensità del duetto, una tensione erotica che evidentemente supera la finzione scenica e restituisce tutta la vulnerabilità e il desiderio dei due artisti.
La tormentata relazione diventa presto pubblica e il copione già visto si ripete, dove le droghe sono il terzo incomodo di una storia che sembra per altri versi travolgere l’artista. Cave arriva a pubblicare una lettera a PJ, che fa il giro del web:
“Polly Jean, I love you. I love the texture of your skin, the taste of your saliva, the softness of your ears. I love every inch and every part of your entire body. From your toes and the beautifully curved arches of your feet, to the exceptional shade and warmth of your dark hair. I need you in my life, I hope you need me too.”
Come la Francesca di Ezra Pound, PJ è la “donna venuta dalla notte”, un nuovo amore che si trasforma in idolo, una sorta di figura speculare per Cave, che non esita a definirla “la ragazza con le mani più fredde e le labbra più calde che abbia mai conosciuto”. PJ invece ammette di essere rimasta scioccata una volta appreso del suo passato con l’eroina.
Malgrado la passione, la storia si chiude bruscamente per decisione di lei, che a differenza di Cave non rilascia commenti al riguardo. Rispondendo alla domanda di un fan sul proprio blog, alcuni anni dopo, l’artista racconterà la sua versione dei fatti: la presenza delle droghe, certamente, ma anche due profili egotici ossessionati dal proprio lavoro creativo che conflagrano.
Questa volta ancora più che in passato, le ceneri della passione sono l’humus per fertilizzare un nuovo lavoro. The Boatman’s Calls, un disco che segna un cambio di rotta nella produzione di Cave, fino ad allora impegnato in una scrittura popolata di personaggi finzionali dietro cui celarsi. L’album è il primo lavoro davvero intimista, il primo in cui sceglie di raccontare il proprio vissuto recente attraverso una catarsi (“The Boatman’s cured me of Polly”, dichiara). Stavolta il registro è più vicino alla preghiera e i cocci di tutti gli amori naufragati, le delusioni e i rammarichi si coagulano in un disco più diretto ed essenziale, a partire dal brano di apertura, Into my Arms, quasi un inno sacro:
But I believe in Love / And I know that you do too / And / I believe in some kind of path / That we can walk down, me and you
É proprio con questo album di svolta che Cave racconta in filigrana la fine del matrimonio con Viviane Carneiro (People Ain’y no Good), l’affaire con Tori Amos (Green Eyes) e l’amore per PJ Harvey, la donna di West End Girl e Black Hair:
Last night my kisses were banked in black hair / And in my bed, my lover, her hair was midnight black / And all her mystery dwelled within her black hair / And her black hair framed a happy heart-shaped face / And heavy-hooded eyes inside her black hair / Shined at me from the depths of her hair of deepest black / While my fingers pushed into her straight black hair / Pulling her black hair back from her happy heart-shaped face
Difficile non pensare ancora a PJ Harvey quando la voce cavernosa di Cave intona (Are you) The one that I’ve been waiting for?
I’ve felt you coming girl, as you drew near / I knew you’d find me, ‘cause I longed you here / Are you my destiny? / Is this how you’ll appear? / Wrapped in a coat with tears in your eyes? / Well take that coat babe, and throw it on the floor / Are you the one that I’ve been waiting for?
Forse però la conclusione malinconica della fine dell’amore è tutta raggrumata in Far from me, dove canta:
For you dear, I was born / For you I was raised up / For you I’ve lived and for you I will die
For you I’m dying now / You were my mad little lover / In a world where everybody fucks everybody else over / You who are so far from me / So far from me
Le macerie delle storie finite si accumulano finché l’amore ritorna, come una fenice. Cave si innamora, nuovamente, in maniera assoluta. Stavolta si tratta di una modella inglese, Susie Bick, conosciuta nel 1997. Bellissima, ancora una volta una donna dai capelli neri e la pelle eburnea, un altro colpo di fulmine. Questa volta però lui decide di sposarla e nel 1999, per la seconda volta, diventa marito e poi padre di due gemelli, Arthur ed Earle. Gli album si susseguono, i demoni sembrano placarsi, le droghe e l’alcool lasciano il posto a una nuova sobrietà ma la sofferenza rimane palpabile; il disco And No More Shall We Part rompe con il passato e apre con As I Satly Sadly by Her Side, un pezzo intriso di nichilismo che restituisce l’atmosfera di tutto il disco:
She said, “Father, mother, sister, brother / Uncle, aunt, nephew, niece /Soldier, sailor, physician, labourer / Actor, scientist, mechanic, priest / Earth and moon and sun and stars / Planets and comets with tails blazing / All are there forever falling / Falling lovely and amazing”
And No More Shall We Part è la presa d’atto di una condanna senza appello alla solitudine che segue ogni fine:
And no more shall we part / It will no longer be necessary / And no more will I say, dear heart / I am alone and she has left me
mentre Love Letter sancisce quell’incontro tra preghiera e canzone che innerva la scrittura di Cave, un pezzo per pianoforte e voce essenziale, dove vibra una tensione ascendente sostenuta dal violino di Warren Ellis:
I hold this letter in my hand / A plea, a petition, a kind of prayer / I hope it does as I have planned / Losing her again is more than I can bear / I kiss the cold, white envelope / I press my lips against her name / Two hundred words. We live in hope / The sky hangs heavy with rain / Love Letter Love Letter / Go get her Go get her
L’inizio del Duemila segna una stagione di nuova maturità ma anche di riflusso; escono altri dischi (alcuni poco riusciti come Nocturama del 2003) che mostrano complessivamente stanchezza compositiva e lavori sottotono, un passaggio che culmina con l’uscita di Blixa Bargeld dai Bad Seeds e, più tardi, l’abbandono dell’altra figura chiave della band, ovvero Mike Harvey, con una dipartita sofferta ma non conflittuale. Cicli esistenziali sembrano chiudersi, portando con sé le scorie di due decenni di arte e vita furiosamente intrecciate, mentre l’ispirazione ritorna con il doppio album Abattoir Blues / The Lyre of Orpheus del 2004, ricchissimo di spunti. Il 2008 è l’anno del progetto parallelo dei Grinderman, una specie di ritorno alle origini fatto di canzoni ruvide e scorrette, arrangiamenti impeccabili e un’asciuttezza che accantona un lungo periodo di divagazioni religiose e romanticismi un po’ estenuati. Il segno che qualcosa brucia ancora.
Push the Sky Away del 2013, sulla cui copertina appare l’amata Susie, fotografata nuda mentre sposta una tenda da cui entra della luce, è un disco diametralmente opposto alle sperimentazione con i Grinderman, in un certo senso rivolto all’indietro, e anticipa di due anni il lutto terribile per la perdita del figlio di 15 anni Arthur, precipitato da una scogliera di Brighton sotto l’effetto dell’Lsd. La morte evocata, corteggiata, presenza familiare nella scrittura di Cave, arriva all’improvviso e travolge tutto. L’album che segue la tragedia, nel 2016, è The Skeleton Tree ed è canto funebre, un’orazione. Non c’è spazio per altro, tutto è risucchiato dal buio della perdita. Qualcosa però, nel tempo, germoglia e si erge sopra la voragine aperta: ciò che ne esce è una creatura intitolata Ghosteen, una riflessione attorno al tema della perdita. L’amore per una donna, racchiuso in un carteggio disseminato nei dischi di quarant’anni, viene qui trasceso, diventa amore paterno, un’apertura inaspettata alla vita e alla luce, una rivoluzione spirituale mossa dal dolore che non viene mai superato ma diventa il tessuto stesso della vita. Sembra quasi che Cave, facendo esperienza della perdita più tragica e avendo il coraggio di abbracciare l’oceano di dolore che lo travolge, venga toccato dalla grazia. Così l’artista, rispondendo a una fan, dice: “Grief is the terrible reminder of the depths of our love and, like love, grief is non-negotiable”.
L’amore e la morte, il desiderio e la perdita: delle centinaia e centinaia di canzoni d’amore scritte, Cave parla così nell’album di spoken word The Secret Life of Love Songs del 1999 (qui di seguito riportate in una traduzione italiana):
“Col tempo ho scritto circa duecento canzoni, una buona quantità delle quali posso tranquillamente definire Canzoni d’Amore. Canzoni d’Amore, e quindi, per mia stessa definizione, canzoni tristi. Nell’ambito di questa considerevole massa di materiale, una manciata di esse si erge sulle altre come vero esempio dì quello di cui ho parlato finora. Sad Waters, Black Hair, I Let Love In, Deanna, From Her To Eternity, Nobody’s Baby Now, Into My Arms, Lime Tree Arbour, Lucy, Straight To You. Sono orgoglioso dì queste canzoni. Sono i miei oscuri, violenti figli dagli occhi neri. Se ne stanno seduti cupi per i fatti loro e non giocano con le altre canzoni. Spesso sono il risultato di gestazioni complicate e di parti difficili e dolorosi. La maggior parte di esse affondano la radici in esperienze personali dirette e sono state concepite per varie ragioni, ma le Canzoni d’Amore che costituiscono questo scalcagnato manipolo sono, di fronte alla morte, tutte la medesima cosa: dei salvagente lanciati dalle galassie a un uomo che sta affogando.”
e sul parallelo tra canzoni e lettere d’amore:
“Le ragioni per cui mi sento costretto a scrivere canzoni d’amore sono davvero tantissime. Alcune mi si sono manifestate chiaramente mentre me ne stavo seduto con un mio amico a cui, per mantenere il suo anonimato, faro riferimento come a G.
G. e io abbiamo ammesso l’un l’altro di soffrire di quel disordine psicologico che i medici sono soliti chiamare “erotografomania”. L’erotografomania è il desiderio ossessivo di scrivere canzoni d’amore. G. mi ha confidato di aver scritto e mandato, negli ultimi cinque anni, più di 7000 lettere d’amore a sua moglie. II mio amico sembrava esausto, e la sua vergogna era quasi tangibile. Discutemmo della forza delle lettere d’amore e trovammo che era, cosa poco sorprendente, davvero simile a quella delle canzoni d’amore. Entrambe svolgono la funzione di meditazioni approfondite sulla persona che amiamo. Entrambe servono a diminuire la distanza tra colui che scrive e la persona che riceve. Entrambe hanno dentro di loro una permanenza e una forza che la parola detta non ha. Entrambe sono esercizi erotici. Entrambe hanno il potenziale per reinventare, per mezzo delle parole, le persone amate, come fece Pigmalione con l’amante di pietra da lui stesso creato. Ma più che queste cose, entrambe hanno la pericolosa forza di imprigionare coloro che amiamo, di legar loro le mani con versi d’amore, di imbavagliarli, di bendarli, perché le parole diventano il parametro definitivo entro il quale è costretta l’immagine di colui che amiamo, imprigionata in legacci fatti di poesia. “Ho preso possesso di te” sussurra la Lettera d’Amore, sospira la Canzone d’Amore, “Per sempre”. Noi lasciamo queste anime rubate fluttuare alla deriva come astronauti che si sono persi e galleggiano per l’eternità attraverso la stratosfera del divino. Per parte mia, io non credo mai alle donne che scrivono lettere, perché so che io stesso non posso essere creduto. Le parole restano, la carne no. Il poeta avrà sempre la mano vincente. Per parte mia, io sono un acchiappa-anime per conto di Dio. Eccomi che arrivo con la mia rete per farfalle di parole. Eccomi che acchiappo crisalidi. Eccomi che soffio vita nei corpi e li lascio svolazzare verso le stelle e la cura di Dio.”
Canzoni d’amore come lettere scritte a chi, ogni volta, in una sincera promessa impossibile da mantenere, ha incarnato per un attimo più o meno duraturo la donna di tutta una vita per poi svanire, e successivamente tornare, trasfigurata in mille personaggi immaginati, inchiodati alle pagine, pregati, inseguiti, posseduti, sacrificati, venerati. Le donne di Cave sono tutte lì, disseminate nei dischi, eternate nella poesia. Perdute come Euridice negli ìnferi, eppure mai dimenticate. Insieme ad Arthur.
(immagine di copertina Festivalsommer, creative commons)
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