Ciò che la Signora Pinotti forse non sa
Signora Pinotti. Io non la conosco, e sinceramente non ho mai letto, prima di oggi, una sua affermazione che colpisse la mia immaginazione, e magari […]
Nessuno sa cosa possa significare avere i jihadisti a poche centinaia di chilometri dalle coste italiane. Sicuramente rischia di esplodere in maniera ancora più drammatica il problema degli sbarchi. Eppure è una realtà con cui fare i conti: l’Isis sta avanzando in Libia senza trovare alcuna vera resistenza. La conquista di Sirte è rilevante dal punto di vista militare ma soprattutto ha un grande valore simbolico: gli islamisti sono entrati nella città natale del colonnello Gheddafi e non hanno alcun timore a mostrare le foto dei miliziani sulle coste, sfidando i nemici.
Così sulla maggioranza delle città dell’ex colonia italiana potrebbe sventolare le bandiere nere dello Stato islamico. Sembrano lontani i tempi in cui Roma siglava il trattato con l’ex rais. Un’intesa firmata da Silvio Berlusconi nell’estate del 2008 e ratificata dal Parlamento soltanto nel febbraio 2009. Ma allora era impensabile prevedere cosa sarebbe accaduto due anni dopo, sull’onda della Primavera araba. La strategia avventurosa dell’ex presidente francese, Nicolas Sarkozy, principale protagonista delle operazioni che hanno abbattuto il regime di Gheddafi, ha provocato un disastro alle porte dell’Europa. «Non poteva esserci diversa conseguenza di una guerra sciagurata voluta sconsideratamente dalla Francia e che l’Italia ha seguito in modo folle e incomprensibile», ha affermato in una recente intervista a Il Piccolo l’ex presidente della Commissione europea, Romano Prodi.
Il caos attuale in Libia è la somma di una serie di errori diplomatici. La genesi dei fatti aiuta a comprendere come si sia giunti alla prorompente avanzata dell’Isis in Libia. Il peccato originale è l’attacco occidentale, datato 19 marzo 2011. La risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu 1973 istituiva una no fly zone per tutelare l’incolumità dei civili minacciati dall’aviazione libica, ha fatto da apripista alle operazioni che hanno sconfitto il regime. «La Russia votò la risoluzione Onu solo per evitare la strage. Poi l’intervento è andato ben oltre il mandato del Consiglio di Sicurezza», spiega a Gli Stati Generali Francesco Strazzari, ricercatore del Norwegian Institute of International Affairs. «Ed è il motivo per cui oggi Mosca porrebbe il veto su qualsiasi risoluzione delle Nazioni Unite su un’azione militare in Libia», aggiunge l’esperto di relazioni diplomatiche. La Francia in quel periodo sfruttò l’indignazione generale sulla controffensiva del rais, che preparava un massacro per riprendersi Bengasi.
Perciò l’abbattimento del governo di Gheddafi è avvenuto sotto l’impulso di Sarkozy. Il capo dell’Eliseo di allora puntava ad ampliare la propria sfera di influenza in Libia, a svantaggio proprio l’Italia. Roma aveva un rapporto privilegiato con Tripoli: gli investimenti dell’Eni sul territorio libico sono solo l’apice di un importante giro di affari. E non a caso, nonostante l’attuale scenario caotico, l’Italia ha tuttora 150 imprese operanti in Libia, dialogando con tutte le fazioni più ragionevoli. Dopo la fine del regime di Gheddafi, è emersa tutta la pochezza diplomatica di Parigi nonché dell’intera Unione europea. I depositi di armi del rais sono finiti nelle mani di signori della guerra. Il processo democratico si è rivelato un fallimento, che trova un tragico esempio nella caduta di Ali Zeidan – il debolissimo premier in carica dal novembre del 2012 al marzo 2014 – spesso minacciato dalle milizie più potenti. Il suo esecutivo nei fatti non riusciva nemmeno a controllare Tripoli, mentre nelle altre città i vari clan si contendevano il controllo delle risorse energetiche.
Il clima politico di incertezza tra settembre e ottobre è deflagrato con la formazione di due governi: quello riconosciuto sul piano internazionale guidato da Abdullah al-Thinni e ora rifugiato a Tobruk, e l’altro, capeggiato da Omar al-Hassi a Tripoli, che include componenti islamiste ma anche fazioni secolari del clan di Misurata, una delle milizie che era riuscita a imporsi nel dopo Gheddafi. Seppure in una situazione fluida, con alleanze di convenienza, si sono formate due coalizioni: Fajr Libya (Alba della Libia), un mix tra uomini di Misurata e guerriglieri islamici (alcuni dei quali riconducibili alla galassia jihadista), contro le truppe dell’Operazione Dignità, avviata dal generale Khalifa Haftar, controversa figura già comandate sotto il regime di Gheddafi, andato in esilio dopo la rottura con l’ex rais, ora appoggiato dall’Egitto di al-Sisi. Gli uomini di Haftar hanno affiancato l’esercito libico, rappresentando la forza trainante dell’alleanza.
In questo scenario si è inserito l’Isis, che nell’ottobre del 2014 ha annunciato la nascita del Califfato a Derna, città della Cirenaica, regione orientale. Una vittoria militare passata quasi inosservata, perché le preoccupazioni erano concentrate su un altro gruppo: Ansar al Sharia (traducibile in “Partigiani della Legge islamica”), altra sigla del jihadismo, con la roccaforte a Bengasi, essendo uno delle componenti principali del Consiglio della shura dei rivoluzionari della città. Ma l’organizzazione ha subito gravi perdite nel corso della guerra contro i soldati dell’Operazione Dignità. A gennaio 2015 è arrivata anche la notizia della morte del leader di Ansar al Sharia, Mohammed al-Zahawi.
Le difficoltà dell’organizzazione islamista libica ha portato a un passaggio di miliziani verso l’Isis. «Ci sono state rotture nel fronte del governo di Tripoli, tra la componente secolare di Misurata e le componenti islamiche», spiega Strazzari. Così «i miliziani più giovani stanno accorrendo nelle fila dell’Isis, che ha un’immagine vincente. Insomma, Ansar al Sharia sta abbracciando in qualche modo l’Isis», sottolinea l’esperto di relazioni internazionali.
Mentre al fronte i combattenti di Fajr Libya e di Operazione Dignità continuano a uccidersi a vicenda, i miliziani dell’Isis stanno conquistando ampie fette di territorio senza trovare una vera resistenza. Peraltro la frattura non riguarda solo il governo di Tripoli: anche l’esecutivo insediato a Tobruk è attraversato da tensioni per il ruolo del generale Haftar, visto come un uomo della restaurazione da alcuni ministri.
Una divisione di cui beneficia lo Stato islamico in Libia, che con il Califfo Ibrahim, meglio noto come Abu Bakr al-Baghdadi, ha instaurato un rapporto in ‘franchising’, uno stile Mc’Donald’s come spiega il New York Times: l’Isis fornisce soldi, armi, norme e materiale di propaganda. Ma sul campo le decisioni vengono assunte dai leader locali. Una specie di modello federale jihadista: anche perché è difficile immaginare che al-Baghdadi possa dettare la linea da Mosul, in Iraq, dove ha stabilito la sua sede operativa. Il collante delle varie anime dell’Isis è l’obiettivo finale, ossia riscrivere i confini dei Paesi arabi con l’instaurazione di uno Stato rispondenti alle leggi islamiche.
Il racconto della complessa situazione sul territorio conferma le preoccupazioni per l’Italia. Ma soprattutto richiede uno sforzo notevole da parte della diplomazia internazionale. L’inviato speciale dell’Onu, Bernardino Leon, ha cercato un dialogo tra le fazioni “moderate” (molto tra vigolette) in campo nel vertice di Ghadames. Il punto di partenza è il tentativo di formare un governo di unità nazionale, che possa fare da argine verso gli estremismi: chi rifiuterà gli accordi andrà incontro alle sanzioni internazionali.
Ma la «crisi è molto profonda, non c’è nessuna soluzione dietro l’angolo», avvisa Strazzari. L’Italia deve perciò prepararsi a convivere con la presenza dell’Isis a poche centinaia di chilometri dalle proprie coste. Per colpa di Sarkozy e di chi, all’epoca, non seppe difendere gli interessi dell’Italia, che ora – proprio con i francesi – dovrà assumersi la responsabilità di dare un senso logico al puzzle scomposto della Libia.
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