Militari, anziani, a termine: ecco i “nuovi” lavoratori sbandierati dal governo

14 Settembre 2015

Dopo settimane trascorse a rincorrere i dati su contratti e occupazione, quei “numerini” quasi insignificanti secondo Matteo Renzi, è possibile tirare le somme di quel che è accaduto nel mercato del lavoro negli ultimi sei mesi, da gennaio fino alla fine di giugno di quest’anno. Questi sono i mesi per cui le informazioni statistiche  sono più complete e si prestano quindi a un’analisi di sintesi, che seppure non esaustiva coglie i tratti salienti degli andamenti di breve periodo in atto. L’attenzione politico-mediatica per il semestre appena concluso invece dipende soprattutto dalla possibilità di dare un giudizio sulle riforme del governo in materia di lavoro, cioè contratto a tutele crescenti e sgravi sul costo del lavoro per le imprese. Seppure non sia ancora possibile analizzare in modo scientifico gli effetti di questa riforma, è sicuramente possibile dare evidenza di alcune caratteristiche osservabili. Al di là degli interessi del governo di mostrare la bontà delle proprie riforme rispetto agli obiettivi dati (che cambiano a seconda delle stagioni della convenienza), una panoramica del mercato del lavoro restituisce consapevolezza rispetto a una realtà che va oltre la sfera individuale di ciascun cittadino e impatta sull’intero sistema produttivo e politico.

Ci si chiede principalmente se nella prima metà del 2015 ci sia un aumento dell’occupazione, se al contrario la disoccupazione diminuisce e se è vero che la riforma del mercato del lavoro ha reso meno precari i lavoratori. La fonte principale per l’informazione statistica è l’Istat, che periodicamente fornisce i dati relativi alla forza lavoro. Secondo quanto emerge dai dati destagionalizzati, a fine giugno rispetto al 31 dicembre, ci sono 114.440 occupati in più in Italia, 122mila se consideriamo i dati non destagionalizzati, che seppure meno precisi sono gli unici che permettono un’analisi più nel dettaglio. Il totale di 122 mila occupati in più corrisponde alla somma tra l’aumento degli occupati dipendenti (132 mila) e la riduzione di quelli indipendenti (-10mila).

Degli occupati dipendenti (tab1), 61mila, cioè il 46%, sono a tempo “indeterminato”, la restante quota a tempo determinato (71mila). In termini assoluti è aumentato anche il tempo pieno rispetto al part-time, che però rimane tendenzialmente la tipologia di orario che cresce di più (in termini percentuali).

tab1

 

(tabella 1)

Aumentando il livello di dettaglio, è rilevante notare che l’aumento del numero di occupati riguarda solo gli over 50, dinamica che si riscontra anche per i contratti a tempo indeterminato da cui vengono esclusi i giovani. Infatti, come riportato nella Tabella 2, il numero di occupati TI tra i 14 e i 34 anni diminuisce di 84 mila unità, mentre aumenta soprattutto per la componente over55 (+90 mila occupati di cui 11 mila over65). L’età media per i “nuovi” occupati con contratto a termine è invece inferiore, infatti,  è nella fascia di età tra 35 e 54 anni che si concentra l’aumento del semestre (+89 mila),  mentre per chi ha tra i 25 e 34 anni il numero di occupati non fa che diminuire (-51 mila).

tab2

 

(tabella 2)

tab3

 

(tabella 3)

Come già più volte ribadito, l’effetto in termini occupazionali pare essere dovuto più alla riforma Fornero, che ha spostato in avanti l’età pensionabile, che alle riforme del governo più giovane della Repubblica italiana. In termini qualitativi, un aumento dell’occupazione trainato dalla fascia di età più estrema della popolazione attiva non può essere valutato positivamente e ribalta il ritornello renziano secondo cui in questo preciso momento storico il governo sta scommettendo sul futuro.

Un altro aspetto rilevante e poco discusso riguarda le categorie professionali interessate dalle variazioni semestrali, una lente di ingrandimento sul tipo di lavoro che viene creato e distrutto in Italia. Mentre aumentano gli occupati con inquadramento operaio e gli impiegati del commercio e dei servizi, diminuiscono notevolmente gli occupati non qualificati (-72mila). Il dato sembrerebbe fin qui positivo se non fosse che esiste un calo non indifferente di occupati (-52mila) nelle professioni tecniche, portatrici del know-how made in Italy, nelle sue forme più genuine. Tuttavia, il dato più eclatante e di dubbia interpretazione è forse quello relativo alle forze armate, per le quali si ha un aumento di 21 mila occupati nel semestre.

Informazioni interessanti che descrivono cosa si nasconde dentro il tasso di occupazione che per l’Italia rimane al 56,2%, a testimonianza del fatto che il mercato manca di un vero e proprio impulso positivo, che gli permetta di avviare un processo di espansione. L’altra faccia della medaglia ci restituisce invece un tasso di disoccupazione (destagionalizzato) pari al 12.4% totale (tab 4) e del 42.2% giovanile, che si traduce in oltre tre milioni e centomila disoccupati.

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(tabella 4)

Fin qui quindi, è un dato di fatto che gli occupati a tempo indeterminato siano aumentati rispetto alla fine dello scorso anno, seppure di poco, molto poco considerato che l’economia italiana, come le altre della zona euro, si trova oggi in una situazione di gran lunga più favorevole rispetto al semestre scorso.  L’andamento dell’economia è sospinto dalla cosiddetta congiuntura a cui contribuiscono positivamente due fattori del tutto esterni alla politica economica italiana: il cambio favorevole dell’euro contro il dollaro e il basso prezzo del petrolio. Una notizia che sembra non sfiorare i tamburi di Palazzo Chigi.

Ad ogni nuovo dato il governo non fa che esaltare con una dose di enfasi che fa inevitabilmente eco su quotidiani e telegiornali, che amplificano il messaggio governativo non lasciando alcuno spazio all’approfondimento e a una accurata analisi, che tuttavia con la sola forza dei numerini ha la capacità di smontare la narrazione tossica a cui non vorremmo si abituasse la società italiana.

Il dato sugli occupati ha come altro complemento quello relativo ai contratti attivati e/o trasformati dalle imprese e le rispettive cessazioni. Questi dati amministrativi sono forniti dal Ministero del Lavoro e dall’Inps, ma non sono tra di loro sovrapponibili: infatti, i dati sulle comunicazioni obbligatorie del ministero registrano le comunicazioni che arrivano dalle imprese riguardo la movimentazione dei contratti, la  tipologia e la durata. Al netto degli errori di calcolo, sono una fonte attendibile, seppure è necessario osservarli a distanza nel tempo (almeno un mese) rispetto al periodo in esame, in quanto le imprese possono ritardare relativamente le comunicazioni. I dati dell’Istituto nazionale di previdenza si basano sui contributi versati dalle imprese ai lavoratori, quindi sono anch’essi attendibili dato che un’impresa, escludendo i casi di frode (non quantificabili dai dati dell’osservatorio sul precariato). Le due banche dati differiscono anche riguardo i settori di riferimento: i dati mensili inps escludono lavoro domestico e agricolo, ma includono quello degli enti pubblici economici. I dati del ministero mensili escludono PA e lavoro domestico e non considerano le trasformazioni di contratti di apprendistato in tempo indeterminato. Tuttavia, nei dati trimestrali la PA e il lavoro domestico sono inclusi nelle comunicazioni obbligatorie.

Usando i dati trimestrali consolidati del Ministero del Lavoro, si nota (tab5) che tra i nuovi contratti netti a farla da padrone rimangono quelli a termine (83% del totale), mentre i nuovi contratti a tempo indeterminato costituiscono poco più di un decimo del totale. Le trasformazioni di contratti a termine in indeterminato sono 100.813, il triplo degli indeterminati ex novo. Rispetto a un anno fa le cose sembrano andare un pochino meglio, ma come già sottolineato non è possibile un confronto meramente descrittivo, in quanto le condizioni di fondo sono ben diverse ed è doveroso ribadire che queste evidenze rappresentano un segnale inequivocabile della scarsa capacità nel creare nuova occupazione, che come vedremo emerge anche dai dati Inps. Dai dati del Ministero, inoltre, è possibile rinvenire alcuni dettagli molto importanti per rispondere alla domanda sulla dinamica della precarietà. Innanzitutto, si nota che se da un lato ci sono più contratti stabili o precariamente stabili (senza art18) è altrettanto vero che i contratti a tempo determinato durano sempre meno.

tab5

 

(tabella 5)

Nel semestre (tab6), il 39% dei contratti non supera il mese, il 17%  non supera i due giorni lavorativi, e lo stesso vale per i contratti che vanno oltre un anno. Diminuiscono invece le posizioni tra i due e i 12 mesi per le quali la trasformazione in tempo indeterminato è più favorevole, grazie agli sgravi e alla disciplina (riformata dal JobsAct) sugli indennizzi in caso di licenziamento. Il mercato, seppure appiattito verso il basso in termini di tutele per i lavoratori, sempre comunque far emergere una tendenza a polarizzarsi: più contratti precariamente stabili, ma anche più contratti che durano pochissimo; in sintesi, la precarietà non ha subito in alcun caso una battuta d’arresto grazie a queste nuove riforme.

Tab6

 

(tabella 6)

Infine, usando la differenza tra i dati consolidati nel trimestre e quelli consolidati nei mesi, è possibile calcolare cosa accade al pubblico impiego e al lavoro domestico. Questi due settori sono aggregati nei dati pubblicati dal ministero, che costringe ad analizzarli come fossero un settore unico nonostante le evidenti ed enormi differenze che vi intercorrono. A ciascuno la propria sensibilità statistica.

In particolare, si nota che per PA e lavoro domestico i contratti netti a tempo indeterminato diminuiscono, così come quelli a tempo determinato, nient’altro di rilevante è possibile ricavare da questo dato se non porci la domanda se la riduzione del tempo determinato per il lavoro domestico è sostituita dal boom dei voucher.

Informazioni sui voucher sono contenute nei dati dell’osservatorio sul precariato dell’Inps, insieme tra l’altro ai dati relativi alla retribuzione dei nuovi assunti. Di voucher si parla poco eppure essi rappresentano la “nuova frontiera del precariato”, come ha detto lo stesso presidente Tito Boeri. Nei primi sette mesi del 2015, ne sono stati venduti 61.993.279 un aumento pari al 73% rispetto allo scorso anno. Non si capisce perché il governo non riesca a spendere una parola su questo strumento contrattuale  che porta con sé rischi elevatissimi sia per gli abusi (maggiore lavoro nero), sia in termini di sfruttamento dei lavoratori, che vengono pagati 7,5€ all’ora indipendentemente dal settore di riferimento, quindi molto meno quanto dovrebbe prevedere il minimo stabilito nei contratti nazionali da cui sono esclusi. Un problema di fondo legato a questo strumento è l’elevata aleatorietà della possibilità di lavoro durante un certo periodo e di conseguenza la quasi impossibilità per i lavoratori di conoscere il proprio reddito a fine mese, soprattutto se non hanno altri contratti in corso.

Infine, è possibile notare che le retribuzioni teoriche lorde dei neo assunti si concentrano tra i 1251 e i 1700 euro, una fascia di reddito non certo elevata. Tuttavia, se i lavoratori non possono fare a meno della precarietà che aggredisce le loro vita in maniera sempre più forte, perché questo offre il mercato aiutato dal Governo, potranno sempre accontentarsi degli 80€.

TAG: governo, istat, Jobs Act, Lavoro, Matteo Renzi, occupazione
CAT: Occupazione, Precari

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