Un altro chiodo sulla bara del sistema politico italiano

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30 Luglio 2022

Quanto è accaduto in Parlamento nella surreale giornata di mercoledì 20 luglio non può che generare ulteriore disaffezione e sdegno nei confronti della politica italiana. Almeno da parte di chi prova a osservare i fatti dal di fuori di un’appartenenza partitica e ha a cuore le sorti dell’Italia e la dignità delle istituzioni. Si è assistito alla defenestrazione da Palazzo Chigi dell’uomo più illustre e autorevole che abbia rappresentato la nazione negli ultimi decenni, nel bel mezzo di una drammatica combinazione di gravissime tensioni geopolitiche, necessità di attuazione a tappe forzate del PNRR, crisi energetica e inflazione galoppante, che potrebbe sfociare presto in recessione, per puri e semplici calcoli di convenienza elettorale (più o meno azzeccati) di alcuni soggetti politici. Il risultato è stato quindi lo scioglimento delle camere e la convocazione alle urne per fine settembre, anticipando in tale delicata e drammatica situazione internazionale il turno elettorale previsto la prossima primavera per la naturale scadenza della legislatura. Quel che però fa acquisire agli eventi di Palazzo Madama gli aggettivi tra l’imbarazzante e il ridicolo è stata l’assenza di una minima assunzione di responsabilità da parte di coloro che li ha determinati, nascosti tra risoluzioni invotabili, richieste ricattatorie, piagnistei vittimistici, astensioni e uscite dall’aula al momento del voto.

Non era inimmaginabile, dato l’inesorabile avvicinarsi della comunque imminente campagna elettorale, che si manifestassero tensioni più o meno forti all’interno della composita maggioranza di governo, e che lo stesso ne potesse risultare indebolito e delegittimato nella sua azione, finanche a metterne in dubbio la continuazione dell’esperienza fino al 2023. Tuttavia l’accelerazione della crisi, iniziata ai primi di luglio nel bel mezzo del vertice Nato di Madrid, a seguito delle ormai celeberrime indiscrezioni giornalistiche sui presunti (e rimasti tali) messaggi e conversazioni telefoniche tra il premier Draghi e Beppe Grillo, e poi proseguita con il cahiers de doleances di Giuseppe Conte e con lo psicodramma pentastellato sulla questione di fiducia relativa all’approvazione del decreto “aiuti”, è giunta infine a determinare la fine del governo Draghi, in un modo che ha rivelato una volta di più la totale inadeguatezza dei partiti italiani e del sistema politico nel suo complesso. Appare sconcertante come in un momento storico drammatico come l’attuale un partito, il M5S, abbia aperto una crisi di governo per il rifiuto di votare la nomina di Roberto Gualtieri quale Commissario alla gestione dei rifiuti a Roma (già di per sé motivo di vergogna nazionale), che avrebbe successivamente comportato la realizzazione di un termovalorizzatore. Miserevoli sono poi stati i balletti, i traccheggiamenti, le dissimulazioni, il vittimismo di chi, Giuseppe Conte, non sapeva letteralmente come uscire da un vicolo cieco in cui si era cacciato. Incalzato da più parti all’interno del suo Movimento in costante e progressiva liquefazione, pressato dai sondaggi sempre più sfavorevoli ma al contempo consapevole di dover evitare la corsa immediata alle urne e di dover salvaguardare il rapporto con l’alleato PD, l’ex avvocato del popolo, nonché ex fortissimo punto di riferimento dei progressisti non trovava di meglio che rinviare decisioni, convocare interminabili riunioni con i propri collaboratori e parlamentari, fino all’improcrastinabile scelta finale di non votare la fiducia al governo in Senato anche nella giornata di mercoledì 20 luglio. Lo scopo iniziale era uscire dalla maggioranza di governo e tenersi le mani libere per sei-nove mesi di opposizione in cui sperare di recuperare consensi nell’unico modo possibile per il M5S, la protesta. Il risultato, per effetto pure di palesi errori di tattica politica, è stato un altro, con ogni probabilità estremamente negativo per lui e per il soggetto politico da lui guidato, sbattuto davanti a non amichevoli urne elettorali senza più il rassicurante approdo nel campo largo Lettiano.

 

Se Conte e il M5S hanno alzato la palla sopra la rete, Matteo Salvini e Silvio Berlusconi l’hanno schiacciata per terra con imprevedibile violenza, salvo poi ritirare la mano. Lega e FI non si sono fatte scappare l’occasione per andare immediatamente al voto, ove, insieme a FDI di Giorgia Meloni, contano di incassare una facile vittoria, anche in tal modo approfittando della quasi certa rottura tra PD e M5S e togliendo spazio e tempo a chi pensava di costituire un importante aggregazione di forze al centro, magari cambiando la legge elettorale in senso proporzionale. I maldestri tentativi messi successivamente in atto da parte dei tre affossatori del governo di allontanare da loro le colpe del misfatto danno l’idea dello stato attuale della politica italiana. Chi pensava che i due partiti del centro-destra di governo si mostrassero leali al premier Draghi e responsabili di fronte ad una già ricordata complicata situazione economica e geopolitica è dunque rimasto deluso. Ha prevalso il richiamo della foresta, che, per i partiti politici è, e non da oggi, la ricerca del consenso e la vittoria nella competizione elettorale, naturalmente tanto più pressante quanto la data dei suffragi si avvicina. Questa è la loro natura, come quella dello scorpione è pungere la rana, nella nota favola. In questo caso la rana è l’Italia, portata in groppa dai partiti, i quali (alcuni più di altri, va detto) con le loro azioni rischiano di portare entrambi sul fondo del fiume, o quasi. Naturalmente non si dovrebbe mai avere paura di esercitare la democrazia e va pur ricordato che in ogni caso gli Italiani si sarebbero recati ai seggi la prossima primavera, però, probabilmente, date le condizioni attuali ricordate sopra, sbarazzarci di un Presidente del Consiglio capace di garantire all’Italia un’autorevolezza mai avuta in tale misura dai tempi di De Gasperi, è stato un azzardo contrario agli interessi nazionali e rischia di essere pagato caro, chiunque occuperà lo scranno di Palazzo Chigi. Sia che venga investita della guida del paese la coalizione di (centro?)-destra, naturalmente a guida Meloni, sia che prevalga il PD di Enrico Letta accompagnato da chissà quali partners.

 

Il sistema politico italiano, insomma, non ne esce bene, prigioniero come è dell’inesorabile polarizzazione e legato mani e piedi ad una logica di scontro frontale tra fazioni che antepongono la polemica, spesso sterile, ai temi davvero importanti per il paese. Pessima eredità di quasi trent’anni di un bipolarismo rovinoso che ormai dovrebbe essere stato dichiarato già da tempo fallito, che spinge i soggetti politici ad irreggimentarsi in improbabili e litigiose coalizione l’un contro l’altre armate e decise ad alzare sempre più il livello dello scontro, al fine di aizzare i propri sostenitori e rafforzare il consenso secondo il ben collaudato schema amico-nemico. Vent’anni di contrapposizione ideologica e senza quartiere tra invettive contro politici, giudici e giornalisti comunisti da una parte e accuse a Berlusconi di ogni possibile misfatto e depravazione, naturalmente in odor di mafia, dall’altra, hanno purtroppo lasciato un segno indelebile, che pone un possente argine a qualunque significativo tentativo di dialogo tra componenti dei due mondi. Dopo il 2013 il ruolo di Berlusconi è stato assunto da Salvini ed ora è il turno di Giorgia Meloni, mentre dall’altra parte i demoni da abbattere sono stati le banche, l’UE, e il supporto all’immigrazione, ben riuniti nella fisionomia del PD e dei suoi leader. Tale frattura impedisce non solo che si possa verificare una collaborazione di governo al di fuori dell’emergenza, come avviene in altri paesi europei, ma persino che si possa instaurare un rapporto di competizione civile tra partiti che si rispettino tra loro, nella comune consapevolezza che l’interesse generale dell’Italia sia superiore (o almeno non inferiore!) a quello di parte. L’asse di rottura va però ben oltre i soggetti politici, i quali peraltro sono anche capaci di collaborare nei corridoi e nelle aule di commissione in Parlamento, purché non si sbandieri troppo in pubblico. La contrapposizione frontale e spesso becera, si estende a media, opinion leader, e infine agli stessi elettori, in particolare all’interno di quelle bolle non di rado autoreferenziali e perfettamente idonee a propagare lo scontro ai più infimi livelli, che sono i social network. Tale impostazione del discorso politico, perpetrata per anni e anni, è estremamente pericolosa per la coesione sociale di un paese che attraversa un periodo storico mai così movimentato da almeno mezzo secolo, e ne mette conseguentemente a rischio la stessa sicurezza, in costanza di guerre e mutamenti geopolitici nel mondo e ai propri confini. Non dovrebbe essere dimenticato.

 

 

Le elezioni del 25 settembre replicheranno purtroppo con ogni probabilità lo scenario politico in via di decomposizione sopra descritto. Da una parte la favorita coalizione guidata dall’arrembante Giorgia Meloni, le cui idee in materia economica e di rapporti con l’UE rappresentano oggi un’incognita da chiarire al più presto. Al suo traino e non troppo di buona voglia, Lega e FI (qualcuno pensava davvero che Berlusconi fosse un liberale, europeista e atlantista in linea con i valori del PPE ?), in costante difficoltà al loro interno e nei sondaggi, e con in più la spada di Damocle del non ingiustificato sospetto riguardo la loro aderenza alla collocazione internazionale nel nostro paese, date le simpatie pro-Mosca non troppo difficili da cogliere. Dall’altra il fluido e per ora imprecisato ex campo largo, ora diventato più ristretto, ma non per questo sufficientemente coeso, sembrerebbe. Intorno al redivivo PD di Enrico Letta in versione Rocky Balboa orbitano liberaldemocratici vecchi e nuovi, socialisti, ex grillini pentiti, ambientalisti, fino alla sinistra-sinistra di Fratoianni, tutti con le proprie idee non necessariamente compatibili tra loro, ma immancabilmente con qualche veto espresso su almeno un altro possibile alleato. C’è comunque tempo fino a metà agosto per presentare le liste. Auguri. In un angolino a sinistra (?) c’è poi il M5S di un Giuseppe Conte in perenne versione Calimero (gliele fanno tutte a lui) abbandonato alla sua sorte verosimilmente non felice dagli ex alleati piddini, che dopo tre anni di corteggiamento si sono improvvisamente resi conto che questo matrimonio non s’ha da fare, dopo gli avvenimenti delle settimane scorse. La legge elettorale, in parte maggioritaria, come noto influisce in maniera determinante sulla perpetrazione di un tal sistema, incentivando alle aggregazioni senza troppo badare alla coesione. Forte responsabilità di non averla cambiata quando si poteva è soprattutto del PD, dato che nel 2019 la sua modifica era stata posta come condizione al M5S per approvare il taglio dei parlamentari in Costituzione. Ma poi questo si fece, mentre il Rosatellum tale è restato, tra traccheggiamenti e professioni di fede nel maggioritario da parte del nuovo segretario Enrico Letta (pentito?).

 

L’inizio della campagna elettorale non è stato dei più esaltanti. Proposte politiche serie sui temi importanti per l’Italia ancora non se ne sono per ora quasi viste, se non da parte del tandem Azione – Più Europa di Calenda e Bonino, mentre il dibattito mediatico verte soprattutto su alleanze, leadership e candidature, in attesa di essere occupato dalle immancabili polemiche etico-identitarie che periodicamente sequestrano le home page dei siti di informazione e i profili social. Non c’è troppo da stupirsi, pertanto, se nel dibattito parlamentare sulla fiducia al governo, di tutto si sia discusso (superbonus, reddito di cittadinanza, termovalorizzatore a Roma, classifiche di lealtà al governo) tranne che delle questioni veramente cruciali per il paese, dalla crisi energetica all’inflazione e alla guerra in Ucraina (a proposito, ma dell’invio di armi a Kiev non si parla più? Se ne sta facendo un altro proprio in questi giorni…), senza dimenticare un problema colossale come il declino demografico, totalmente ignorato. Sarà fondamentale, in questa tenzone di fine settembre, che gli elettori valutino attentamente le reali proposte dei soggetti politici in campo, a cominciare da quelle economiche e di politica internazionale. Mai come in questa fase, alle soglie di una possibile nuova recessione con impatti sociali potenzialmente devastanti, è necessario avere rappresentanti eletti sulla base della concretezza e dell’aderenza al vincolo di realtà, non in virtù di promesse demagogiche o crociate ideologiche, entrambe già intraviste. Auspicio di non facile attuazione, dato il vasto consenso ottenuto dai movimenti populisti e/o anti-sistema alle ultime elezioni del 2018, di ogni parte politica, e considerata la crisi dei partiti tradizionali verificatasi in tutta Europa nell’ultimo decennio.

 

La facilità con cui gli elettori italiani negli ultimi anni hanno spostato in massa i loro voti è purtroppo sintomo di disaffezione alla politica, di mancanza di fiducia nei leader e di scoraggiamento, ma anche di ricerca incessante di qualcuno che, dal Governo o dal Parlamento, gli risolva i problemi (qualunque essi siano), e a cui dare il voto, salvo poi esserne delusi e passare al campione successivo.  Questo testimoniano le fortune elettorali sempre più brevi ed effimere ottenute negli ultimi quindici anni in serie da Berlusconi, Renzi, M5S, Salvini. Ora, verosimilmente, sarà il turno di Giorgia Meloni, se sarà capace di confermare le attese. Su quanto in questo atteggiamento dell’elettorato abbiano pesato trent’anni di messaggi populisti, insulti reciproci e guerre civili in punta di penna e tastiere, ma anche i precedenti decenni di spesa pubblica assistenziale, presenza pervasiva dello stato nell’economia e acquiescenza verso questo o quel gruppo di potere, che hanno irrimediabilmente solleticato le aspettative dei cittadini, sarebbe forse utile riflettere un po’ di più. Ad ogni modo, questa sarebbe l’occasione buona per cambiare prospettiva, sia per i partiti che, conseguentemente, per gli elettori, nella speranza che in ogni schieramento la serietà, il realismo e il riformismo prevalgano sullo sterile radicalismo fino ad oggi prevalente.

 

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CAT: Parlamento, Partiti e politici

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