Se una lingua scompare, se non è più comprensibile, se quelli che la parlano, quei pochi ormai, nessuno è più in grado di capirli, quella lingua viene consegnata alla società contemporanea come una lingua morta. Neppure agonizzante, morta. Quella lingua è la lingua del Partito Democratico. Nessuno la parla più, nessuno la studia più, nessuno ha il minimo interesse a riscoprirne le proprietà. Una lingua carica di storia, una storia che è stata grande, che ammuffisce con rara indecenza degli attuali tenutari. Una lingua che non si parla più non è evidentemente attrattiva per le nuove generazioni, né un’appassionata Andrea Marcolongo potrà mai convincere nessuno sulla bontà del verbo piddino come meritoriamente ha fatto con il greco, proprio lei che qualche tempo fa salì sul palco di una vecchia Leopolda per dire che si poteva fare, che quel giovane toscano in fondo era un visionario che comprendeva molte delle nostre istanze (scrivo come fossi anch’io giovane, non essendolo). Era un secolo fa, forse qualche cosa di più.
Mi sono fatto convincere – e perché poi – a seguire i lavori dell’Assemblea del Partito Democratico. Chi mi ha sollecitato voleva probabilmente sollievo, una spalla su cui poggiare la propria malinconia giornalistica. Sapevo, sentivo che sarebbe finita in vacca, trattandosi, appunto, dei Soliti Noti. Alla fine, il sollecitatore amico se n’è rimasto in poltrona e il coglione che sono io (cit.) ha preso la sua bicicletta e si è portato disciplinatamente all’hotel Ergife per quella che doveva essere una disfida. Per usare dei termini più moderni, un confronto, finalmente un confronto. Non c’è mai un confronto vero all’interno del Pd, ma che razza di partito siete? Questa volta, però, tutti s’erano animati alla bisogna, con dichiarazioni bellicose, piani strategici, volontà definitive di chiarire finalmente un percorso. Perchè là fuori, fuori dalle vostre stanze due per tre, scorre la vita, si parla la lingua del mondo, si soffre, si hanno aspettative, si cercano risposte, ci si vorrebbe ancora appassionare. Appassionare, che bel verbo in politica. È quasi tutto.
Temo che i nostri eroi non comprendano appieno la distanza tra sé medesimi e il resto degli umani sensibili. È forse il punto più straordinario di separazione affettiva tra un popolo, o quel che ne resta, e i suoi poco legittimi rappresentanti. Ieri con un magheggio da giostrai dell’Eur, il Partito Democratico ha sottratto la democrazia ai suoi già pochi elettori, che credevano di poter assistere a una discussione franca e aperta sul futuro della comunità, sulle persone che avrebbero dovuto traghettare le anime perse in un altrove più definito e fors’anche più dignitoso. Credevano che la dignità, appunto, facesse parte almeno di un gruppo di uomini e donne del Pd che non avrebbe ceduto a pastoie men che commendevoli e tirato dritto verso un chiarimento forse definitivo in cui tracciare una linea, i primi passo di un cammino incerto e faticoso, ma di quel mondo nuovo a cui sarebbe appartenuta anche una lingua nuova, comprensibile finalmente a persone libere.
Invece, le quasi due ore di ritardo sulla tabella di marcia servivano perché il confronto tra le parti in battaglia assumesse i tratti dell’indecenza, convenendo – tutti – sulla necessità paracula di non ingaggiare una lotta aperta, non potendo vantare certezze sul finale di partita.
Tant’è che ognuno poi se la sarebbe tirata dalla sua, i renzianissimi facendo girare la versione che il capo aveva evitato lo scontro (e il voto) per estremo senso di responsabilità pur avendo la maggioranza in assemblea, gli altri, per converso, sottolineando la paura fottuta di Renzi e dei suoi di andar sotto con tanto di vergogna. Insomma, si convergeva su una indecorosa discussione sulla “delicata situazione del Paese”, come marziani anche un po’ stupidi caduti sulla terra, come se la delicata situazione del Paese si potesse discutere senza conoscere cosa restava di un partito e dei suoi dirigenti. Neppure uno straccio di dimissioni di Renzi si è potuto formalizzare, perché il signorino si è messo di traverso, lasciandole sospese come una minaccia incombente sul futuro. Dopo quattro minuti e una votazione a maggioranza, si sarebbe potuto chiudere l’assemblea.
Difficile persino richiamare la prima Repubblica, quando accadono situazioni del genere e persino troppo comodo ripararsi dietro presunte debolezze di un passato lontano. Qui siamo in un tempo assolutamente inedito in cui spericolati parvenu spacciano protervia per sapienza. Non c’è più controllo dentro il Partito Democratico, il comportamento di Martina ieri, insieme alle persone che lo sostengono, non è meno colpevole di quello di Renzi.
Con dignità, e un filo di fermezza, Martina avrebbe dovuto chiedere il confronto aperto e consapevole. Poi un voto. Poteva perdere? Certo. Una sconfitta, una bella sconfitta, dopo aver esibito le proprie passioni, lo avrebbe reso più forte di fronte agli elettori. Avrebbe ripreso la lingua del Pd, e molti avrebbero ricominciato a parlare con lui.
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Prima sparisce e meglio è per il paese!