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Partiti e politici

Di Maio, una storia italiana: quella del populista ammesso al club delle élite

di Jacopo Tondelli
22 Giugno 2022

La prima e unica volta in cui parlai con Luigi Di Maio fu in occasione dell’apertura della sua trionfale campagna elettorale per le elezioni politiche del 2018. Come residenti al Talent Garden di Via Calabiana, fummo invitati insieme ad altri startupper e imprenditori digitali a un pranzo riservato in cui si potevano fare domande, ma tendenzialmente i contenuti delle risposte sarebbero dovuti rimanere riservati. Di quell’incontro ricordo un po’ di sensazioni e frasi, tutte coerenti con quel che sarebbe successo dopo – e arrivato a maturità ieri – e già incoerenti con quel che si prometteva prima, e anche allora. Ricordo un collaboratore di Di Maio interrompere una mia domanda sulla giunta Raggi e sul rischio che arrivati al governo nazionale si presentassero le stesse difficoltà pronunciando l’indimenticabile frase: “Siamo qui per parlare d’innovazione, non di politica”. Per negarmi la risposta del leader politico di un partito che si candidava a governare. E ricordo lo stesso Di Maio, prima di non dirmi sostanzialmente nulla in risposta, puntualizzare che “questa risposta è ovviamente off the record”, alla faccia delle dirette streaming.

Cosa è successo da allora a oggi – meno di cinque anni, meno di una legislatura – è sotto gli occhi di tutti e non ha bisogno di grandi ripassi. Di lì a poco abbiamo sentito e visto Di Maio: ringraziare Mattarella “nostro angelo custode” subito prima di chiederne l’impeachment; fare contemporaneamente il ministro del lavoro e dello sviluppo economico in un governo di destra populista prima di diventare ministro degli Esteri in un governo di centrosinistra semipopulista ma presieduto dallo stesso presidente del consiglio; dire che “il paese deve ringraziare il movimento per avergli regalato una perla come Giuseppe Conte” e ora andarsene dal movimento, colpevole in sintesi di essere troppo populista per colpa di Conte; (voler) essere culo e camicia con Salvini, poi con Zingaretti, poi con Letta, e infine con Draghi; dichiarare ogni disprezzo per il trasformismo e trasformarsi nel volgere di una sola legislatura da capo di un movimento non alieno da simpatie putiniane a futuribile leader dell’ennesimo partitino centrista e ultra atlantista che litiga per un pugno di voti con Calenda e Renzi, che spera in un aiuto da Tabacci e sogna di avere la credibilità di Casini.

Eppure, alla fine di tutto, non si riesce a volergli nemmeno male, a Gigi. A meno di non aver creduto almeno per un secondo al movimento o a lui, a meno di non avergli dato fiducia foss’anche solo nel fondo della propria coscienza, a chi non ha la sfortuna di doverne seguire passo a passo l’avventura, la sua parabole appare naturale, doverosa. Perché è la storia di un giovane con poca istruzione e tanta ambizione che è stato catapultato a fare cose enormi senza che ci fosse alcuna sanzione sociale per chi ce lo mandava, e solo tanti sfottó per lui. Perché è anche la storia di quel giovane che ha con sagacia e furbizia imparato a stare al mondo, quel mondo di lupi che sorridono come agnelli e ridono come iene che è il palazzo romano. Perché è, infine, l’ennesimo capitolo della biografia di una nazione che canta da decenni la stessa canzone: osanna sempre meno duraturi a chi promette soluzioni rapide a questioni lunghe e dolorose. Tempo qualche mese, e le soluzioni si presenteranno meno facili, così anche le critiche giuste finiranno travolte dalla cialtronaggine di chi ne portava la voce. Seduto in un angolo qualcuno aspetta la prossima crisi istituzionale o finanziaria per normalizzare l’ultimo masianiello, in attesa del prossimo. Qualcuno lo chiama il populismo delle èlite: di sicuro è un populismo che torna sempre utile, alle cosiddette élite. Senza che nessuna sanzione sociale o politica sia comminata sia per aver così repentinamente voltato gabbana, sia per aver creato le condizioni di una nuova crisi di qualche tipo. Sarebbe anche un gioco dell’oca dignitoso, non fosse che a ogni giro si alza la temperatura della febbre che scalda la fronte della nostra democrazia. Se non abbiamo letto male, il termometro oggi dice 43 gradi e mezzo.

Luigi Di Maio
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