I 100 anni di Ingrao nel giorno del nuovo scandalo Pd e di allergia al dissenso
I cento anni di Pietro Ingrao, nel giorno in cui c’è il nuovo scandalo corruzione che colpisce gli eredi di quel “che fu il Pci” (sì, lo so: quest’affermazione è ingrata), rappresentati dal sindaco di Ischia Ferrandino. Ma i cento anni di Pietro Ingrao sono arrivati anche nel giorno in cui il Pd ha deciso di abbracciare il renzismo come pensiero unico, votando l’Italicum, invece di cercare una strada alternativa, valorizzando l’esercizo di quel “dissenso” che ha caratterizzato il percorso politico del Grande Vecchio del Pci. Un partito di cui, seppure con tutto il travaglio del caso, il Pd è erede.
Il destino, si sa, ama giocare con le umane vicende. E così mentre si celebrano i cento anni di Ingrao, con quella punta di giustificata nostalgia, la doppia vicenda odierna, per quanto casuale, mette il centrosinistra di fronte all’eterno dilemma che non riesce a risolvere: cosa essere? Un partito a trazione leaderistica? Un partito di (solo) potere? La risposta non può arrivare oggi e forse nemmeno domani, nonostante l’ìdea di Renzi sia chiara: realizzare il progetto del Partito della Nazione. Che non prevede un grande dissenso, ma solo un gruppo di follower.
Ma nel giorno in cui viene osannato Pietro Ingrao, la serie di quesiti diventa sempre più stringente. L’affetto verso quell’anziano leader – che forse nemmeno può essere definito con questa etichetta che evoca un tempo moderno – indica che a sinistra c’è un prevalente senso di nostalgia per il passato, unito a uno scoramento per il futuro. Il renzismo ha scaldato i cuori di molti, come testimonia il risultato del Pd alle Europee. Ma viene visto come un qualcosa di “altro” rispetto alle speranze progressiste che aveva saputo accendere.
E il sentimento di nostalgia solleva questioni di primaria importanza: il collateralismo della Prima Repubblica (il rapporto stretto tra associazioni e partiti) si è trasformato in un business che gonfia le tasche degli affaristi, allontanando definitivamente i cittadini dalla politica. Allora preferiscono volgere lo sguardo al passato e tirare un sospiro disilluso che è un urlo soffocato di dolore.
Ogni scandalo rivela un sistema losco, che è forse la naturale evoluzione dell’italica malattia della corruzione. Giosi Ferrandino, alle scorse Europee, era presente nelle liste del Pd come un “renziano di ferro”, nonostante i suoi trascorsi da sostenitore di Bersani. Il sindaco di Ischia – benché sia ancora all’inizio dell’iter giudiziario e quindi innocente fino all’eventuale sentenza – è sostanzialmente l’emblema di una crisi eterna. Addirittura senza sbocchi, benché la vicesegretaria del Pd, Debora Serracchiani, dica di non conoscerlo. Forse dovrebbe sapere meglio chi sono i componenti del suo partito.
Allora è facile spiegare tutta questa nostalgia verso Pietro Ingrao, soprattutto per la sua integrità morale, associata a una politica anche un po’ idealizzata. Ma così arriviamo alla concomitanza del suo centenario nel giorno della direzione Pd sull’Italicum. Una coincidenza che strappa un sorriso amaro. Perché il primo presidente della Camera comunista della storia è stato l’interprete di quel dissenso che – oggi – nel Pd è visto alla stregua di un fastidio, un rumore di sottofodono che va silenziato. E celebrato solo a posteriori, quando si compiono cento anni.
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