Il peccato originale di Maria Elena? Non aver detto a papà che non si fa

18 Dicembre 2015

Prima del 1994, il concetto di conflitto di interessi ci era perfettamente sconosciuto e il fatto che per gli Stati Uniti fosse già da anni un elemento consustanziale alla democrazia a noi faceva onestamente un baffo. Ci era sconosciuto non per la mancanza di una legge, buona o cattiva che fosse, ci era sconosciuto per un vuoto culturale, per un puro e semplice disinteresse etico. Apparve alle nostre coscienze solo il giorno in cui sulla scena politica arrivò Lui, come ormai lo chiama Renzi, l’uomo che ci ha costretto a fare i conti con le regole, dunque un benemerito della democrazia. Il conflitto di interessi di Berlusconi, come tutti sanno, aveva a che fare con le sue televisioni (non era solo quello, ma la tv faceva premio su tutto), le sue televisioni, se ricordate, lo avevano “lanciato” in politica attraverso gli affettuosi consigli delle star di Canale 5 e i suoi telegiornali avevano buonissima udienza tra i cittadini. Nacqua così la famosa questione della creazione del consenso politico, la polemica appunto sul peso e sulla forza della televisione rispetto alle libere scelte degli elettori. Si concluse, nel solito processo sommario all’italiana, che le televisioni lo avevano fatto vincere.

In una delle prime conferenze-stampa sull’argomento, Berlusconi si presentò ai giornalisti con una legge/progettino che richiamava il ben noto «blind trust» di americana memoria, in cui identificare una struttura terza all’azienda e ad essa affidarne la gestione operativa. Ispirarsi alla democrazia americana non poteva certo bastare, quell’impianto berlusconiano separava nulla dall’operatività televisiva e gestionale, tanto che lo scrivente fece esattamente questa domanda, mutuata proprio dall’ascolto dei tegiornali Mediaset della sera precedente: «Presidente, tutto bello tutto giusto. Ma che separazione sarebbe, se poi i telegiornali continuano a essere fatti allo stesso modo? Le vorrei solo segnalare che ieri Studio Aperto le ha dedicato un tempo intorno ai 15 minuti, il Tg4 di Fede 17, il tg di Mentana 12». Non ricordo perfettamente la risposta del Cav. ma imbastì uno dei suoi soliti teatrini, dicendo che mai aveva messo becco sulle scelte dei direttori. (Cosa vera peraltro, anche perchè i direttori medesimi sapevano perfettamente cosa fare anche senza sollecitazioni).

È utile ricordare che la madre di tutti i conflitti di interessi, riconducibile appunto a Silvio Berlusconi, non aveva come sfondo il dolore dei cittadini (come nel caso del ministro Boschi), i loro risparmi, le loro esigenze primarie di sopravvivenza. Anzi, da questo punto di vista, chi ha investito qualche soldino sulle aziende berlusconiane semmai ci ha guadagnato e B. ha sempre a buon diritto sostenuto di non aver mai licenziato nessuno (il contrappasso è che semmai gli tocca licenziare in politica i dipendenti del partito). Da quella vicenda, anche questa è storia nota, ne nacque una legge, la legge Frattini, del tutto insufficiente rispetto alle esigenze di un Paese complesso e aggrovigliato (negli interessi) come l’Italia. Giusto per fare un esempio  recente di conflitto di interessi “diretto”. Sergio Pecorelli, da anni potentissimo direttore generale dell’Aifa, l’Agenzia italiana del Farmaco, ieri è stato costretto alle dimissioni per i suoi legami con società che producono vaccini   e anche per certi interessi finanziari riconducibili al mercato della farmaceutica.

Ciò di cui discutiamo quando parliamo del caso del ministro Boschi è semmai un conflitto di interessi del secondo tipo, non direttamente riconducibile agli atti del ministro (semmai riguardano gli atti dell’esecutivo). Non vi appaia paradossale nè tanto meno provocatorio, ma questo è il terreno che meno ci interessa pur essendo un to sul quale si sparge il dolore autentico di moltissime persone. Spesso nel nostro Paese, pochissimo normato sull’argomento, il conflitto di interessi riguarda la sfera delle sensibilità personali e politiche. Quel territorio molto delicato in cui gli aspetti più decisivi sono magari proprio le triangolazioni affettive, se non quelle amicali, le questioni in cui un sentimento autentico può trasformarsi in leggerezza istituzionale. È questo il territorio di cui parliamo e che non può essere bollinato come per la Ragioneria dello Stato ma che vive di una luce riflessa, alle volte torbida, una zona grigia che arriva all’esterno con i contorni poco chiari e dunque tutta da interpretare. Ricorderete il caso del minsitro Cancellieri, sul quale, come le opposizioni oggi ricordano, sia Renzi sia Boschi si espresso duramente per le dimissioni. Partiva anche allora da un fatto sentimentale, l’amicizia del ministro con la famiglia Ligresti, con il figliolo nei ruoli apicali dell’azienda e da lì poi si trasformava in evidente inopportunità.

Nel caso di Maria Elena Boschi, le sue colpe “sentimentali”, ma non per questo politicamente meno gravi, sono piuttosto evidenti. Una su tutte. Con Banca Etruria già molto, molto, pericolante, suo padre, già consigliere di amministrazione, viene identificato per la posizione di Vice Presidente. In quel momento Maria Elena Boschi, che è già ministro della Repubblica, ha un dovere prima istituzionale che affettivo: chiamare suo padre e metterlo al corrente dell’inopportunità di accettare quella carica. Per un motivo elementare, evidente a grandi e piccini. Da quel preciso istante, ogni atto, ogni gesto, ogni situazione in capo a Banca Etruria si riverbereranno politicamente sul ministro, che da quel preciso istante comincerà a perdere particelle di “integrità” istituzionale. Una debolezza che lo stato non si può permettere nei suoi civil servant più significativi. Certo, non è facile dire a un padre: fermati!, soprattutto se l’affetto è grande e la personalità paterna molto forte. Questo tormento Maria Elena Boschi lo ha avuto, e anche evidente, se al Corriere della Sera oggi dice: «Ha 67 anni, cosa potevo dirgli? Ora mi fa soffrire che sia lui a scusarsi con me…Non deve rimproverarsi nulla, ha fatto solo il suo dovere». Ma quel tormento non le ha dato la forza di imporsi con suo padre. C’era invero un’altra strada, con papà Boschi fermo sulle posizioni: le dimissioni del ministro. Ma anche questo gesto è rimasto nel cassetto. Oggi che Maria Elena Boschi esce dalle aule parlamentari con ampi numeri a favore, dopo l’orgogliosa mozione degli affetti, restano interamente tutti i dubbi sulla strada intrapresa.

In Italia, la sensibilità politica è il vero cuore di una questione intricata come il conflitto di interessi. È una zona grigia, spesso pelosa, che spesso si compone di affetto e opportunismo, di relazioni e di cedimenti, dove la nettezza dei comportamenti è sempre nettezza meno qualcosa, e manca soprattutto, spiace dirlo, la sensibilità di società più evolute che in presenza di un quadro a tinte poco chiare, se non fosche, fanno sentire tutto il loro peso “politico” ponendo i soggetti interessati nella poco invidiabile posizione di scegliere l’unica strada possibile: quella della dignità. Poi ci sono le norme, ci sono i processi, ci sono le aule giudiziarie. Ma vengono dopo, molto dopo, prima, se permettete, c’è ancora lo stile. Per quel che serve.

TAG: conflitto d'interessi, maria elena boschi, Matteo Renzi
CAT: Partiti e politici

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