Fateci caso: da settimane, in un modo o nell’altro, sui giornali si parla quasi esclusivamente di nomine. Cioè di potere e sottopotere, e di che deve occuparlo. Di chi lo lascia e di chi se lo prende. Delle decisioni prese dal “governo” – ma sarebbe più esatto dire “dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni” – a proposito di aziende partecipate dallo stato, vertici della Rai, conduttori e giornalisti della stessa azienda, gestione dell’emergenza che ha colpito la Romagna, commissioni parlamentari di rilevanza strategica e simbolica, come quella che si occupa di lotta alle mafie. Solo per fermarci alla stretta attualità di queste settimane, e per stare solo al livello delle cose note e più importanti. La centralità delle spartizioni di potere nel discorso pubblico non è nuova, e dipende sicuramente da molti fattori. Si realizza senza dubbio anche causa di un giornalismo sempre più concentrato a guardare solo a ciò che succede nei palazzi del potere politico, e sempre meno capace di raccontare quel che succede alla vita delle perosne comuni, anche e soprattutto in conseguenza di ciò che decide la politica.Così, sempre di più, in un circolo inestricabile, media e potere si alimentano dello stesso brodo di cultura, e gli uni sembrano esistere in funzione dell’altro, e viceversa.
Ma c’è ragionevolmente dell’altro, e la causa prima sta anche, sicuramente, nella postura di Meloni e dei suoi: una postura vorace, che del resto, in un’intervista rilasciata oggi al Corriere, viene rivendicata esplicitamente da Giovanni Donzelli, parlamentare capo dell’organizzazione nazionale di Fratelli d’Italia. Donzelli ha fatto tutta la gavetta politica del militante della Destra italiana, nella quale entrò 19enne nel 1994 quando crollò, quasi all’improvviso, il pluridecennale ostracismo dedicato dal sistema politico alla destra postfascista. In quegli anni emergeva la fame e la voglia di potere e di governo di chi non aveva mai potuto far altro che politica di testimonianza, rivendicando “l’onore” di un passato invero non proprio onorevole. Trent’anni dopo è tutto diverso, gli ex missini sono nel giro buono da pezzo, e il meno ex di tutti è addiritura Presidente del Senato. Le nomine, cioè le poltrone, sono rivendicate come “uno strumento di governo”. Naturalmente, anche a ragione, Donzelli ricorda che quando a governare sono stati altri non si sono risparmiati in sforzi di lottizzazione e conquista del potere. Parlare sempre degli “altri” quando viene criticato un metodo di governo non è esattamente un segno di forza, ma pazienza. E anche parlare continuamente del “merito” come bussola, quando il merito principale di chi fa carriera in politica e al governo è l’obbedienza alla capa, può lasciare perplessi. Ma insomma, siamo ormai abituati a tutto e nulla può stupire davvero.
Così, riavvolgendo il nastro e risfogliando le pagine dei quotidiani di questi giorni abbiamo visto, in fila, una dopo l’altra, e spesso accavallate e intrecciate in maniera che tutto sembrasse la stessa cosa, questioni diverse ma invero accomunate dalla stessa caratteristica: c’è un governo che rivendica con l’aria del padrone il proprio potere.
Pensiamo alla questione della nomina del Commissario per l’emergenza alluvione e la ricostruzione in Emilia Romagna. Bonaccini è la figura migliore per ricoprire quel ruolo? Personalmente non lo so, anche se è ovvio che la vicinanza col territorio e i rapporti istituzionali e personali e politici con gli amministratori locali sarebbe un punto a favore. Contro questa scelta – se davvero fosse così – si potrebbe aprire un vero dibattito pubblico e politico, spiegando perché Bonaccini non va bene. Magari contestandogli, come fanno diverse voci autorevole, politiche aggressive di consumo di suolo che conducono alla progressiva impermeabilizzazione dei terreni. Naturalmente, per contestare queste scelte bisognerebbe poter spiegare che ci si riferisce a un modello di sviluppo del tutto diverso, proprio nella settimana in cui il ministro delle infrastrutture Salvini celebra come “passaggio storico” la nascita della società che si dovrà occupare della costruzione del Ponte sullo Stretto (a proposito, Matteo, la società di scopo è già stata fondata e poi sfondata in passato, di storico per il momento non è successo nulla). E invece Meloni litiga con chi, anche tra i governatori del centrodestra, caldeggia la nomina del collega emiliano, rimbrottandoli che c’è ancora il fango in strada e non si è ancora certi del numero di morti e già parlano di poltrone e soldi. Come se in fondo poltrone e soldi non fossero l’ogetto naturale e necessario di qualunque scelta, anche di segno opposto rispetto a Bonaccini.
Diverso, ma in fondo simile, è il caso di Chiara Colosimo, imposta come presidente della commissione parlamentare antimafia, e strenuamente difesa, anche dopo la rivelazione dei suoi risalenti rapporti con l’ex NAR Luigi Ciavardini. Anche in questo caso, non possiamo stupirci di molto, e l’aspetto più rilevante è forse quello meno sottolineato. Il problema principale di questa nomina non è nemmeno la possibile amicizia con un ex terrorista nero, ma la totale sovrapponibilità di Chiara Colosimo con Giorgia Meloni. Le due, loro sì, sicuramente, sono amiche per la pelle, hanno frequentato gli stessi circoli, sono cresciute negli stessi scantinati in cui qualcuno magari il saluto romano lo faceva. Ma il problema è davvero istituzionale: può la presidente di una commissione centrale, che deve vigilare in totale autonomia su tutto, essere legata a doppio filo a chi tiene già con grande autorità le redini del potere esecutivo? Appena un paio di legislature fa al posto che oggi è di Colosimo sedeva Rosy Bindi che, da presidente, creò non pochi problemi a membri della sua maggioranza, della sua coalizione, e in definitiva al capo di partito e di governo che era allora Matteo Renzi. La situazione sicuramente non era la migliore possibile per chi allora manovrava il potere, ma era sicuramente positiva per la democrazia e la legalità.
Del resto, e per concludere, la mentalità dominante della destra di governo l’abbiamo vista all’opera in queste settimane sulla Rai. Sia nelle scelte di direzioni e posti di comando, sia nella rapidità con cui sono state accolte le fuoriuscite di giornalisti non allineabili (Lucia Annunziata), sia di conduttori così garbati e pacifici da non risultare davvero mai fastidiosi per nessun governo, a meno di essere proprio ipersensibili (e parliamo qui di Fabio Fazio). Anche qui, una riflessione seria andrebbe fatta, in un paese serio. Non poteva essere considerata lesa maestà l’ipotesi che certe trasmissioni scomparissero, che certi volti e certe voci uscissero di scena. Ma non è nemmeno possibile che questo avvenga così, senza una discussione seria sui criteri che governano le scelte della tv di Stato, che nessuno risponda mai alle questioni anche economiche di fondo. E che un governo in buona parte composto da grigi (o neri) funzionari che vivono di politica di partito fin da quando son bambini ci spieghino che da adesso in poi conterà solo il merito. E finiscano la frase senza nemmeno mettersi a ridere.
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