Siamo fortunati, noi educati al ventennio di B., perché abbiamo vissuto sentimenti pieni. Passioni, financo. Amore per la politica. Sembra impossibile, ma proprio lui, che non aveva parentela alcuna con «il teatrino della politica», o almeno così diceva, è stato il generale che ha combattuto la battaglia perfetta, la battaglia ideale, l’ultima, quella che avrebbe consegnato la politica definitivamente alla Storia. L’ultimo capitolo di una Guerra Fredda in versione moderna, l’ultima versione di un Muro riedificato per l’occasione, l’ultima occasione per dividersi, come popolo e come idee, l’ultima vera grande occasione per sentirsi in fondo legittimati a dire: «Confesso che ho vissuto».
In questo tempo in cui ogni sentimento manca sempre di un pezzo – non è mai indignazione piena, né critica esercitata con il dovere della critica, né tanto meno ironia o autoironia – in questo tempo di polveri sottili in cui i contorni non sono mai esatti, le situazioni sempre sfumate, l’opportunità politica a intensità variabile, Silvio Berlusconi è giusto che sia morto. E infatti, come un giocatore antico, come un Kaiser Franz con il braccio al collo, cerca disperatamente una scelta di tempo che non è più il suo, ogni intervento – rispetto alla smartitudine del bulletto toscano – sembra un «Vivolive» degli anni ’70, con le immagini che virano malinconicamente in seppia. La conseguenza, inevitabile, è che a questo punto della nostra storia dovrebbero esserci due popoli distinti, uno orfano di una turbolenta stagione sentimentale e l’altro nel pieno della sbocciatura. Si dovrebbero notare le differenze anche a occhio nudo, semplicemente per strada, nelle discussioni da bar, sugli autobus, nella metropolitana (quando va). E invece al secondo popolo, quello vincente, quello di oggi, germoglio in fiore, sebbene elegante, apparentemente con tutto al suo posto, manca un’eccitazione, il brivido, la lama di luce. Rimane agli atti solo un impiegatizio esercizio del potere, ma con la p minuscola (anche se poi i posti sono con la P maiuscola). Questa mezza vita sul pianeta Renzi porta anche i suoi detrattori a non vivere sentimenti pieni, dimezzando spesso le forze, derubricando la solenne antipatia ad alzata di spalle, considerandolo molto meno di quel che probabilmente è. Sottovalutandolo forse, senza comunque un riconoscimento completo. Per un certo aspetto, una vera questione antropologica.
Come sia accaduto che con Silvio Berlusconi entrambi i popoli contrapposti abbiano vissuto invece sentimenti pieni, totalizzanti, non è solo questione di fanatismo politico. È che tutti noi abbiamo attribuito al Cavaliere alcune proprietà fondamentali che nessuno è disposto a riconoscere a Matteo Renzi. Innanzitutto, che aveva lavorato e creato (l’altro no). Quando B. raccontava a noi giovani cronisti che “qui non hanno mai lavorato” e per “qui” intendeva il Parlamento tutto, aveva soprattutto un politico nella testa: Massimo D’Alema. Una personalità forte, a cui in questo modo, a suo modo, cercava di togliere particelle di integrità agli occhi della gente. Il Cav. sapeva che alla pancia della gente quella storia lì dei politici che bivaccano in Parlamento faceva grandemente incazzare. E aveva ragione. Con Renzi di fronte, avrebbe probabilmente giocato la stessa partita, se appena gli avessero sottoposto il brulicante curriculum vitae dell’ex sindaco toscano. In qualche modo, gli italiani sapevano di avere nei confronti di Berlusconi un debito di considerazione da scontare poi in politica: la creazione della televisione privata, opposta alla Rai, è stata una vera rivoluzione che in termini di immagine ha pagato moltissimo. Un uomo così, del tutto fuori dalla norma, e soprattutto del tutto fuori dalla politica, avrebbe segnato per sempre la nostra esistenza. Chi ha creduto in Berlusconi, chi lo ha odiato, chi ne ha studiato il fenomeno, tutto quel popolo che ha poi formato l’antiberlusconismo dilagante, ha agito su basi concrete, culturali, su questioni aperte sulla nostra pelle, su vicende passate (P2), su questioni presenti (il Milan), su una storia dagli ingredienti forti e distinti. Ci siamo tuffati nell’interpretazione di quel fenomeno con tutto l’amore possibile delle nostre conoscenze.
Si dovrebbe parlare anche un attimo di noi. Nel ventennio di cui sopra è successo veramente di tutto. Parliamo dell’informazione, lo avete capito. In parallelo è successo di tutto anche in magistratura. Il tutto del tutto, sempre applicato al Cavaliere. Oggi che la riverenza renziana è all’ordine del giorno, dovremmo sottolineare che si usano due pesi e due misure. Inevitabilmente. Dovremmo allora concludere che tutte quelle schiene dritte d’allora, oggi sono vecchie e ricurve. Qualcuna forse. Ma il punto non è questo. Questo è un appiattimento antropologico, culturale, è un assopimento più che delle coscienze, dei cervelli. Nel senso che non riusciamo ad attribuire a Matteo Renzi nessuna proprietà completa, definita, sia in positivo sia in negativo, né ci riesce di considerarlo davvero autorevole, forse è un suo limite, ma certo al fondo di ogni questione ci appare sempre, inevitabilmente, un uccellino (o un gufettino, a scelta) che ci sussurra quanto sia improbabile, il tipo. È un non-nemico, e in fondo questo è anche un bene, ma è anche un non-avversario per chi lo osteggia: ci vorresti magari litigare, poi lasci perdere perché hai di meglio da fare. In questa terra di mezzo, di assenza sentimentale, Matteo Renzi ha trovato la sua dimensione incontrastata. Nessuno si batte come dovrebbe, con tutte le forze che ha. Nessuno lo valuta per quello che davvero è (o non è). Si resta tutti lì, a riderne un po’, perché lo spaccone è anche un po’ buffo, ma davvero molto poco meritevole di passioni forti come fu per il nostro B.
Lui ringrazia, di questa non-considerazione ci gode e soprattutto governa.
Devi fare per commentare, è semplice e veloce.