Le primarie maccheroniche non funzionano più. È questa la (triste) verità

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10 Marzo 2016

L’affluenza “dopata” con schede bianche e nulle a Roma e i voti a pochi euro a Napoli, ci raccontano tutti i limiti delle primarie del Partito Democratico (o del centrosinistra, se proprio dobbiamo calcolare i cespugli). Limiti che emergono maggiormente quando per qualche motivo cala l’asticella dell’affluenza, visivamente rappresentata da quelle festose code di partecipazione che nel recente passato hanno fatto inorgoglire i massimi dirigenti del partito fondato da Walter Veltroni e oggi appaltato da Leopolda Spa.

Ma per capire la parabola delle primarie, bisogna proprio tornare alle origini del PD, a quella scelta di “massima apertura” che sin da subito caratterizzò – nel bene e nel male – la nascita e i primi passi del partito che unì le dirigenze e i capibastone dei Ds e della Margherita sotto un unico simbolo e un unico tetto. Da subito si scelsero le primarie come strumento di selezione di gruppi dirigenti e candidati, ci fu persino un dibattito abbastanza acceso sul fare o non fare un vero e proprio tesseramento. Ci fu persino chi il tesseramento lo creò parallelo attraverso un’associazione esterna.

Inizialmente la consultazione di massa funzionò, caratterizzando il PD come l’unico partito in grado di mobilitare i suoi elettori, coinvolgendoli nella scelta non solo dei candidati alle cariche elettive, ma anche per l’elezione alcuni ruoli dirigenziali come i segretari regionali. Ma funzionò anche perché si trattò di una specie di acclamazione del segretario già designato del nuovo partito e a caduta dei suoi gruppi dirigenti. C’era la novità dei gazebo, l’illusione dell’elettorato che diventava protagonista e decideva quello che per tutto il ‘900 avevano deciso i cosiddetti “caminetti”. Una favola durata poco che si è spenta man mano che l’effetto novità è andato scemando. L’affluenza è diventata sempre più altalenante e presto – già dalle primarie che elessero Pier Luigi Bersani – il festante “popolo delle primarie” si è trasformato ne popolo dei centri anziani accompagnati, misto a truppe cammellate e gruppi organizzati ingaggiati per l’occasione. Ci furono poi le polemiche che accompagnarono il trionfo di Matteo Renzi, secondo molti gonfiato nei numeri da una forte partecipazione dell’elettorato di centrodestra alla consultazione.

Ma perché le primarie hanno avuto questa involuzione? Semplice, perché non sono delle vere e proprie primarie, ma l’imitazione mal riuscita di quelle americane. E in questi giorni la differenza è apparsa palese agli occhi di tutti, anche perché negli USA sia i repubblicani che i democratici stanno decidendo i candidati alla presidenza, palesando agli occhi del mondo l’abisso organizzativo tra il loro strumento decisionale e le blande e provinciali imitazioni nostrane. Per intenderci, chi a Roma ha dopato l’affluenza con 3.700 tra schede bianche e nulle (per sciatteria o dolo è quasi poco importante) in America avrebbe passato un guaio. Per non parlare dei protagonisti dei gravi fatti di Napoli.

Ammesso quindi che si voglia perseguire con le primarie – cosa non scontata visto che l’Italia ha una tradizione di partiti organizzati, mentre quelli americani sono dei cartelli elettorali che organizzano comitati a sostegno dei candidati e raccolta fondi per le campagne – bisognerà regolamentarle per legge, magari con un provvedimento unico che decida una volta per tutte e in modo chiaro le funzioni e la natura stessa dei partiti politici, scrivendo inevitabilmente delle regole sulle modalità con cui possono ricorrere al finanziamento privato, per evitare scandali e inchieste come quella di “Mafia Capitale”. Se vanno fatte, devono essere quindi certificate e controllate dallo stato, e non dalle correnti dei partiti che le organizzano, altrimenti tanto vale tornare ai vecchi congressi chiusi che a quel punto hanno anche più senso.

Impensabile dunque continuare a immaginare in futuro queste “primarie maccheroniche” dove gli arbitri sono anche giocatori, dove non sono previsti degli albi a cui iscriversi per parteciparvi (chi il 6 marzo ha votato a quelle del centrosinistra, potrebbe tranquillamente votare nelle prossime settimane a quelle della sinistra e persino alle consultazioni del centrodestra… Una follia) e soprattutto dove il risultato ha valenza legale zero.

Che poi, fatte in questo modo, le primarie risultano persino nocive. L’idea iniziale era infatti quella di anticipare le campagne elettorali, spostando l’attenzione mediatica sui candidati e sui loro programmi (variazioni compatibili con quelle del partito o dello schieramento organizzatore), producendo un vantaggio  – appunto, mediatico – sui concorrenti. È chiaro che così non è più da tempo. Sono giorni che sia a Roma che a Napoli si parla solo delle pecche organizzative, delle irregolarità a i seggi, dell’affluenza che sarebbe stata gonfiata per “salvare” Orfini, delle infinite polemiche sulle “truppe cammellate”. Un bel problema per Giachetti e la Valente, che ancor prima di iniziare le loro campagne elettorali dovranno far dimenticare in fretta il 6 marzo. Ma che strane queste primarie…

TAG: antonio bassolino, Ignazio Marino, mafia capitale, Matteo Renzi, napoli, partito democratico, politica, primarie, roberto giachetti, roberto morassut, Roma, valeria valente
CAT: Partiti e politici

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