Il fallimento dell’esperienza Macron: una lezione per i progressisti

20 Marzo 2023

Prima che il 2020 fosse elevato ad annus horribilis, questo appellativo era riservato al 2016: la vittoria di Brexit e di Donald Trump, sottovalutate dai sondaggisti, e la sconfitta del al Referendum italiano sembravano aprire la strada a una stagione di populismo imperante. La vittoria del candidato centrista Emmanuel Macron alle presidenziali francesi del 2017 è stata quindi interpretata come una sorta di “The Empire Strikes Back“: il liberalismo, inteso come fede in un mercato regolato, nella democrazia rappresentativa e nello stato di diritto, non era così morto come le vittorie di populisti lasciavano presagire.

Un’elezione dopo, però, Macron appare quantomeno in difficoltà: alle elezioni legislative, la sua coalizione non è riuscita a raggiungere la maggioranza assoluta, puntellata a destra da Marine Le Pen e a sinistra dal nuovo cartello elettorale della NUPES, di fatto azzoppando l’agenda del Presidente della Repubblica. Proprio la debolezza dell’esecutivo ha acuito le proteste riguardanti la riforma delle pensione, passata scavalcando il parlamento grazie all’articolo 49.3 della costituzione.

La forte mobilitazione nelle piazze ha fatto pensare a una sorta di fallimento dell’esperienza di governo dell’ex ministro dell’Economia del governo Valls: in realtà anche durante il primo mandato le proposte di Macron avevano generato malcontenti generali, come dimostra il movimento dei Gilet Jaune. Certo, la situazione è molto differente: se allora il movimento era supportato dalla destra estrema, questa volta le proteste di piazza sono più organiche, grazie all’appoggio dell’opposizione di sinistra radicale e dei sindacati.

Quello che però sarebbe errato è considerare le manifestazioni di piazza come il sintomo del fallimento dell’esperienza macroniana. In realtà il fallimento è ben più profondo, meno contingente e ha ripercussioni in tutto l’occidente.

Il radical centrismo come antidoto al populismo

Per comprendere il fenomeno Macron è necessario andare a riprendere un testo scritto da due dei più stretti collaboratori di Macron: “The New Progressivism, a grassroots alternative to the populism of our times” di Ismael Emelien e David Amiel, ambedue nel team che ha accompagnato Macron sulla soglia dell’Eliseo. Fin dal titolo, si comprende l’ambizione dei due: sfruttando l’esperienza maturata nella campagna e nel delineare la proposta politica del Presidente francese, elaborare un nuovo corso progressista per contrastare l’ondata populista.

I due partono dalla constatazione che i partiti tradizionali non sono stati in grado di comprendere i cambiamenti che hanno interessato il mondo in questi ultimi anni e la loro analisi, ancorata a categorie arcaiche, ha lasciato ampio spazio ai populismi.

Stretti nelle maglie dell’ideologia, i partiti non hanno saputo ascoltare i bisogni della popolazione, più istruita e coinvolta che mai grazie anche ai social network. Ormai gli elettori non sono più dei semplici consumatori di politica, interpellati soltanto per il loro voto alle elezioni, ma vogliono sentirsi partecipi. La soluzione, secondo gli autori, parte da tre principi, che sono quelli del “macronismo“: fornire agli individui le giuste possibilità; fare in modo che la collettività incentivi l’agire individuale; mobilitazione di base anche al di fuori delle elezioni.

Sempre secondo gli autori una delle caratteristiche principali del nostro tempo è l’elevata eterogeneità, che però non viene compresa dalla politica e dagli intellettuali, che finiscono quindi a proporre soluzioni non abbastanza granulari. Un esempio paradigmatico, scrivono in un loro articolo per Project Syndicate, è la tassazione: pur nella consapevolezza della frattura che si è andata a creare tra le città e le campagne, la tassazione, dicono gli autori, rimane identica, acuendo così le disuguaglianze territoriali.

Un altro esempio è l’istruzione, che dovrebbe essere più personalizzata e rispondere alle esigenze dei singoli individui per non sprecarne il potenziale.

Per questo è necessario ripensare profondamente l’azione dello Stato, non più padre onnipresente: compito dello stato è rimuovere gli ostacoli sul cammino delle persone, ad esempio contrastando il dominio delle grandi aziende e le discriminazioni di genere, promuovendo quindi l’agire individuale.

In virtù di queste considerazioni, è necessario rigettare la divisione classica tra destra e sinistra, elefanti ideologici appartenenti al passato: la nuova contrapposizione politica sarebbe tra un populismo che guarda al passato- sia di destra sia di sinistra- e un nuovo progressismo che, avendo compreso i mutamenti avvenuti negli ultimi decenni, sarebbe in grado di risolvere i problemi che affliggono le società occidentali.

Una posizione simile la ritroviamo in uno dei settimanali di punta del centrismo occidentale, l’inglese The Economist: in un articolo di oltre dieci anni fa avverte la necessità di “una nuova forma di politica centrista radicale”. Questo nuovo progressismo riconosce il problema delle disuguaglianze, a differenza della destra economica; ma, a differenza della sinistra, riconosce il mutato contesto sociale, in un mondo sempre più complesso e individuale. Non servono misure come l’aumento delle tasse per i ceti più abbienti o l’intervento diretto dello stato nell’economia: è il mercato a trainare questa rivoluzione, con lo stato relegato in secondo piano.

Al tempo Macron sembrava aver aperto la strada a questo nuovo centrismo radicale, mentre altri partito promettevano di andare presto al potere nel resto d’Europa: basti pensare alla versione borghese di Podemos, il partito centrista Ciudadanos.

L’esperienza di Macron nella pratica? Un presidente di destra

La vittoria alle presidenziali del 2017 di Macron giocava proprio sul tentativo di andare oltre le tradizionali divisioni politiche di destra e di sinistra.

Il rischio intrinseco a questa strategia è che, una volta al potere, si è tenuti a fare delle scelte e favorire determinati gruppi interni alla società. Durante la campagna elettorale Macron riuscì a unire tanto i socialisti quanto i gollisti, ma una volta al potere è stato più vicino a questi ultimi. A capo del suo primo governo fu infatti posto Edouard Philippe, membro proprio dei Repubblicani mentre a Le Maire toccò il ministero dell’economia, anche lui proveniente da ambienti di destra.

Sul fronte interno la politica di Macron è stata, appunto, di destra ma, in linea con l’approccio dirigista francese. Come scriveva Stefano Ungaro su Domani, tra gli obiettivi di Macron vi era la riduzione del tasso di disoccupazione. Obiettivo raggiunto: secondo l’istituto nazionale di statistica il tasso di disoccupazione è passato dal 9,5 al 7,4, il più basso da quindici anni, ma come?

La riforma del mondo del lavoro del 2017 e quella dell’indennità di disoccupazione del 2019- entrata poi in vigore nell’ottobre scorso- hanno precarizzato il mondo del lavoro e ricalcolato gli assegni di disoccupazione. E mentre il Ministro dell’Economia Le Maire vantava il record di posti di lavoro creati- una sorta di topos nella politica post pandemica- qualcuno faceva notare che la maggior parte di questi sono proprio lavori precari e di false partite iva o della gig economy.

Un tema su cui Macron ha dovuto fare i conti è anche l’ambiente. Pur cercando di sottrarre al Presidente degli Stati Uniti Donald Trump lo sloganMake Our Planet Great Again-, sul fronte interno non sono certo mancate le critiche a Macron proprio su questo tema.

Basti pensare che nel primo governo Philippe, la poltrona di Ministro della Transizione Ecologica era inizialmente occupato da Nicholas Hulot, una celebrità nel mondo dell’ambientalismo francese. Un ruolo in cui però non rimase a lungo, sostenendo che non vi era alcun intento di prendere sul serio la crisi climatica. Nel corso della prima legislatura anche altri parlamentari, eletti in un primo momento con En Marche di Macron, formarono un gruppo a parte, rompendo con la linea troppo morbida sul contrasto alla crisi climatica.

La fragilità delle politiche climatiche di Macron deriva, tra le altre cose, da una scarsa considerazione degli effetti diseguali di queste politiche. La protesta dei Gilet Gialli rappresenta il caso paradigmatico: quelle proteste che misero a ferro e fuoco la Francia per mesi derivavano dall’introduzione di una carbon tax sui carburanti, uno dei rimedi classici dell’economia per gestire la crisi climatica. Nonostante queste proposte funzionino bene- o quasi, in realtà- sulla carta, hanno degli effetti devastanti dal punto di vista elettorale: data la natura dell’imposta, vanno a pesare più sulle fasce meno abbienti della popolazione, che già oggi inquinano meno rispetto ai più ricchi.

Le politiche di Macron hanno acuito le disuguaglianze di tipo territoriale e alienato gli elettori più poveri, tanto che il consenso elettorale del Presidente è andato diminuendo tra il primo e il secondo mandato, tanto che come ricordato prima Macron non ha la maggioranza alla camera. Ponendo il governo di Elisabeth Borne- lei sì proveniente da ambienti più di sinistra- in una situazione di estrema fragilità.

Quello che doveva essere quindi un modello per i centristi progressisti in tutto il mondo occidentale è in realtà diventato una versione più progressista della destra francese, risucchiato dalle differenze ideologiche che dichiarava di voler contrastare.

Da Biden al terzo polo

Il nostro tempo, dove le disuguaglianze hanno raggiunto i livelli pre-prima guerra mondiale, non permette più chiaroscuri: le differenze tra destra e sinistra sono profonde a livello economico. Lo ha capito anche il Partito Democratico americano e in particolare il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden: pur avendo passato la maggior parte della sua carriera politica su posizioni centriste, la linea politica del governo Biden ha sterzato nettamente a sinistra, nonostante le difficoltà sia a livello politico sia a livello economico come l’inflazione.

Una delle critiche che si rivolge all’esperienza Biden riguarda il fatto che le differenze sono più a parole che non nei fatti. Ma questo è un indice affidabile: come abbiamo scritto con Nicola Lacetera su Il Mulino,  la scelta delle parole, in politica, rappresenta un passo importante nel delineare l’ideologia e i gruppi interni alla società a cui ci si rivolge. Questo è, d’altronde, uno dei grandi ostacoli per il modello centrista: le parole d’ordine scelte rischiano di attrarre un numero estremamente limitato di persone.

La scelta invece del Terzo Polo, ovvero l’alleanza tra Azione e Italia Viva, pare opposta. Se al tempo del governo Conte I proprio i riformisti avevano guidato la linea dura dell’opposizione, con il governo Meloni non mancano parole d’elogio: a partire dalla delega fiscale che, secondo Marattin, rappresenterebbe un proseguimento sulla strada delineata da Mario Draghi. Lo stesso vale per misure come la riforma del Reddito di Cittadinanza. Non ci sarebbe nulla di male se emergesse una destra popolare e conservatrice nel nostro paese- magari con un leader diverso da Calenda- ma, appunto, di destra si parlerebbe e non di centro riformista. Perché, alla prova dei fatti, non c’è e non c’è mai stato spazio per il centro.

 

 

TAG: Calenda, Centrismo, destra, Francia, Macron, sinistra, terzo polo
CAT: Partiti e politici

Un commento

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  1. andrea-lenzi 1 anno fa

    Articolo, a mio personale avviso, che complica affari semplici e crea confusione:
    innanzitutto occorrerebbe trattare separatamente il progressismo relativo ai diritti individuali e alle lotte contro la discriminazione da quello economico, che dovrebbe riguardare la sola ridistribuzione dei redditi attraverso il prelievo fiscale.
    In secondo luogo, le risorse finanziarie di ogni nazione non sono infinite e la pensione è una voce costosissima in ogni bilancio, che va obbligatoriamente tagliata per garantire la tenuta di tutti i servizi pubblici (a meno di aumentare ulteriormente le tasse).
    Da tutti i punti di vista i governi conservatori hanno comportamenti disfuzionali su tutti i temi visti, sia perché per loro è normale la discriminazione in base ai loro “valori” religiosi, sia perché favoriscono i più ricchi, ma anche gli evasori (come mostrano i constinui condoni fiscali, con nomi più o meno fantasiosi), sia perché tendono a fare spese pazze con ovvi fini populistici e con i soldi pubblici, col risultato di buttare sulle spalle delle generazioni future il fardello, che come minimo si tradurrà in pensioni inferiori in più tarda età

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