Questa volta è una guerra diversa, e richiede un diverso pensare

9 Ottobre 2023

Questa volta è diverso, per molte ragioni, ed è probabilmente questa diversità che rende difficile prendere parola anche per chi, a parlare d’Israele e Palestina e dei loro confilitti, è abituato fin da quando ha iniziato ad avere, o a credere di avere, una voce pubblica. La cronaca che abbiamo visto e raccontato lungo gli anni  funzionava stabilmente così: invocando a pretesto la difesa dei diritti dei palestinesi, gli stati arabi vicini a Israele, hanno periodicamente attaccato militarmente lo stato ebraico. A partire dalla seconda metà degli anni Ottanta del 900, son poi stati direttamente i palestinesi a insorgere. Mano a mano che l’occupazione dei territori palestinesi, iniziata dopo la guerra dei Sei Giorni, nel 1967, si faceva più evidente e prevaricante, e anche in seguito al mutare degli equilibri geopolitici ereditati dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, le ragioni dei palestinesi trovavano orecchie più disponibili nell’opinione pubblica mondiale e anche in diversi governi e governanti, soprattutto europei, soprattutto di area socialista. Le ragioni dei palestinesi non sono una scusa, sono ragioni vere, e dev’essere chiaro: il diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese è stato e resta scandalosamente calpestato da decenni, per responsabilità di molti, non solo d’Israele. Non sono certo ultime, nella lista dei colpevoli, svariate leadership palestinesi, che hanno preferito la propria sopravvivenza a un compromesso politico che le avrebbe esposte alla rabbia dei propri concittadini e, peggio, al boicottaggio della fratellanza araba, ma che avrebbe contemporaneamente visto nascere – per la prima volta nella storia, visto che non è mai esistito – uno stato di Palestina. La giusta causa del diritto dei palestinesi a una terra loro, dunque, è stata ed è usata a sproposito e per le ragioni sbagliate, non solo da vicini arabi che non hanno mai riconosciuto il diritto d’Israele di esistere.

Anche i palestinesi stessi troppo spesso hanno preferito il terrorismo alla politica, anche negli anni e nei decenni – che non sono questi – nei quali in Israele e a Washington c’era chi voleva davvero fare politica, e attraverso quella arrivare a una pace duratura e il più possibile equa. In Israele è sempre esistito un pezzo di società che non credeva alla possibilità di fare pace con gli arabi, o che non ne coltivava alcuna volontà, per ragioni militari o religiose, e prosegue volentieri gli strumenti della contrapposizione e della guerra, non solo in seguito ad attacchi militari come quello di questi giorni. Nel mondo arabo in generale, e in quello palestinese in particolare, è sempre esistito un enorme pezzo di società che riteneva che l’unica pace equa possibile sia la fine dell’esistenza dello stato d’Israele. I coraggiosi, razionali, mirabili costruttori di pace sono probabilmente sempre stati minoranza, e sicuramente lo sono oggi, in entrambi i campi, dopo che lungo i decenni sono via via prevalsi da ambo i lati gli identitarismi, i settarismi, i militarismi. Fa impressione, in particolare, l’involuzione d’Israele, in questo senso, in chi l’ha conosciuto qualche decennio fa. In questo quadro, sia gli attacchi subiti da stati sovrani stranieri, sia quelli lanciati da gruppi terroristici militari o paramilitari palestinesi ormai stabilmente legati al fondamentalismo sciita che governa in Iran, finivano tutti allo stesso modo: in qualche giorno, qualche settimana, Israele ristabiliva l’ordine per mezzo della propria superiorità militare, mai messa in discussione. Ragionevolmente succederà così anche questa volta, e non si può certo escludere che tra qualche settimana, molti morti dopo, Israele avrà avuto ragione con le armi dell’iniziativa terroristica di Hamas. Potrebbe anche non essere così semplice, stavolta, lo vedremo. Comunque finisca, sarà importante ricordarsi che questa guerra inizia con una serie di attacchi terroristici militari da parte palestinese, che colpiscono, uccidono, rapiscono centinaia di civili israeliani. Questo non giustifica morti innocenti per mano israliana, nè cancella una storia lunga, ma va ricordarto adesso a futura memoria.

Questa volta, comunque evolverà la storia prossima ventura, ci sono degli elementi di diversità che vale la pena di mettere in fila, anche per evitare di proteggersi nel qualunquismo secondo il quale ogni fatto va sempre relativizzato in una storia lunga – e quando si parla di Palestina e Israele è facile, anche giusto, l’ho appena fatto anche io. E poi per non perdersi nel patetico provincialismo di chi appiccica la bandiera d’Israele o quella palestinese sulla sua fotina sui social network, ed è convinto così, dopo la partita e prima di una serie su Netflix, di aver fatto la sua parte o, quantomeno, di aver detto al mondo da quale parte sta: quella giusta, of course.
La tragedia di questi giorni, e di quelli che verranno, può misurarsi invece in fatti, momenti, scelte, contesti internazionali molto più grandi e popolati di una terra che occupa lo spazio di una media regione italiana, e se non fosse per il carnaio di Gaza avrebbe anche la stessa popolazione.

La prima ragione di diversità, rispetto al passato, è che siamo di fronte a un atto di guerra contro Israele lanciato su vasta scala, e in grande stile, direttamente dai palestinesi. Si dirà: ma come, e le Intifade? Lasciando perdere la prima, quella degli anni Ottanta, guidata da Arafat e prima di ogni riconoscimento, almeno la seconda poteva in effetti contare su qualche strumento militare, le bombe, gli attentati suicidi sugli autobus e nelle discoteche degli israeliani. È vero, fu cruenta, erano atti di terrorismo che lasciavano tracce come lo fa una guerra. Ma usava come armi principali i corpi di ragazzini palestinesi invasati, concepiti, seppur solo per assonanza, dalla stessa temperie culturale cavalcata da Osama Bin Laden mentre costruiva il drama-show mondiale dell’11 settembre. Peraltro, quell’Intifada fu sostanzialmente stroncata, salvo rari episodi tardivi, dalla costruzione del muro voluto da Ariel Sharon. Finiti i varchi per entrare, finiti i martiri. Stavolta i palestinesi della Gaza di Hamas, che evidentemente sono altro rispetto ai palestinesi della Cisgiordania controllata da Abu Mazen e dai vecchi dell’autorità palestinese, hanno pensato, concepito e realizzato un atto di guerra con strumenti militari veri e propri. Sono penetrati in territorio israeliano: hanno ucciso e rapito, e sono tornati a casa con gli scalpi e i corpi da mettere sul tavolo dei negoziati. Una cosa inimmaginabile, prima che accadesse il 7 ottobre del 2023. Un evento che, se prefigurato, avrebbe probabilmente suscitato l’ilarità che si dedica all’irrealtà in qualunque cittadino israeliano, abituato – giustamente – a pensare di vivere in uno stato che sa come tutelare la sicurezza dei suoi cittadini e dei suoi confini. Con le buone, tutte le volte che si può, o con le cattive, tutte le volte che si deve. E invece è successo, e in questa maniera non era mai successo prima.

Questa volta è diverso perchè avviene, ancora, in un momento di profonda spaccatura interna alla società israeliana. È la seconda ragione di diversità, non meno importante. Come non capitava da tempo immemore, si è vista per strada e nelle piazze un’opposizione sociale, prima che politica. In un paese fondato dai socialisti, dove la sinistra era scomparsa anticipando un trend che poi ha colpito molte sinistre europee, da mesi e mesi, le piazze hanno riscoperto di essere uno spazio per la politica. Si sono riempite di oppositori, soprattutto a Tel Aviv, seguendo il trend urbanocentrico dei liberal di tutto il mondo, che hanno gridato il loro “no” a Netanyahu – il politico più longevo della storia recente, perfino più di Berlusconi – e a una riforma della giustizia negoziata con estremisti di destra che ne condizionano l’azione e che, se fossero in Italia, siederebbero ben a destra di Matteo Salvini (sì, lo so che la metafora è imprecisa, è per capirci). Bene, mentre Israele riscopriva il gusto della dialettica politica viene sferrato un attacco che, per forza di cose, non può che riportare all’unità d’intenti tutto l’arco parlamentare. Primum vivere, giustamente, poi parleremo di tutto. E se anche non è credibile che Israele rischi di sparire, è pur vero che l’attacco di Hamas è sferrato da una forza politica che dichiara come proprio obiettivo centrale la fine dello stato sionista e ha alle spalle, dichiaratemente, il grande nemico storico d’Israele, cioè l’Iran.

Proprio la presenza di Teheran nel discorso, e non certo in un luogo marginale dello stesso, sottolinea la terza differenza, rispetto alle guerre di ieri. Non è una novità, certamente, il ruolo degli Sciiti di Persia nella vicenda israeliana e in quella palestinese. Adesso, però, conta come mai prima, perchè Israele, un passo dopo l’altro, stava costruendo una pacificazione con lo stato musulmano più ricco del mondo, l’Arabia Saudita, solido alleato degli USA, e al lavoro per un robusto self-washing costruito mettendo nel bouquet grandi calciatori ed ex presidenti del consiglio occidentali. Se l’Arabia Saudita riconoscesse mai lo stato d’Israele e il suo pieno diritto di esistere, saremmo di fronte a un cambiamento epocale, che finirebbe di scongelare i rapporti – invero già buoni, e prova ne è che Gaza è chiusa a doppia mandata non solo verso Israele, ma anche dal lato egiziano – tra Gerusalemme e il Cairo. Era quello che si stava preparando, ed evidentemente è anche questo uno degli obiettivi dell’attacco. Perchè l’Iran al mondo ha sicuramente due nemici, Israele e gli USA, e poi ce n’è un terzo, che sono i sauditi. Gli attentati dei giorni scorsi e la guerra che seguirà porta una domanda, posta in farsi ma da tradurre nell’arabo della Mecca, cuore storico dell’Islam: “Fratelli sauditi, cos’avete da dire dei vostri amici sionisti che massacrano i nostri fratelli palestinesi?”. Bombardare Israele significa dunque anche bombardare Ryiad, Bin Salman, e la new wave normalizzatrice di un Islam che resta fondamentalista, ma vuole sedersi a tavola facendo sfoggio di un inglese migliore del nostro. Se non ci fosse il rischio del baratro, e non ci fossero in mezzo migliaia di vite innocenti, potremmo quasi apprezzare lo squarcio in un velo multiplo di ipocrisia, la nostra, la loro. Così, tuttavia, non è.

Eppure, le differenze non sono ancora finite, perchè in un tempo di compiuta globalizzazione quel che succede in questi giorni a sud di Gerusalemme ha molto da dire sulla vita di chi vive a Roma, a Parigi, a Berlino, a Kyiv e a Mosca. Questa guerra esplode infatti, e lo sappiamo tutti, mentre si continua a combattere, dopo tempo immemore, alle porte dell’Europa, ed è la quarta differenza. Ai suoi confini, se guardiamo o la geografia, e nel suo cuore, se pensiamo alla sua storia, ai suoi valori, alla ragione stessa di esistere di quel che chiamiamo Unione Europea. Non è qui tanto, o solo, una questione geopolitica. Non conta solo e sempre chi saprà approfittare della situazione, se Putin o gli ucraini, se la Cina o Trump o Biden. Ma è certo che in un momento di molte faglie aperte e fragili, e porose, un nuovo e sanguinolento conflitto, che vede contrapposti simboli sedimentati e conosciuti, interagisce con le forze e le debolezze di tutti. E sicuramente ha qualcosa da dire sul destino del conflitto scatenato dall’invasione russa dell’Ucraina, e su quali società sono pronte a sacrificare ancora qualcosa di loro, e quanto, e per quanto a lungo.

L’elenco di quel che fa diverso questo presente rispetto a molti passati potrebbe perfino continuare. Ma possiamo fermarci qui. A futura memoria, invece, restano alcune domande.
Agli italiani vorrei chiedere se va bene a tuttti, anche ai più accorti tra noi, che la voce dei nostri politici, e degli intellettuali, e degli analisti, sia questo sterile pollaio di solidarietà e prese di distanze fatte su misura per i piccoli pubblici delle prossime elezioni europee, e i prossimi dati di audience, e non per il destino e il futuro di una nazione che ha il suo cuore nel Mediterraneo.
Agli israeliani – in mezzo ai quali ho speso gli anni più belli, e tra i quali torno ogni volta che ho desiderio di avere nostalgia – vorrei porre un quesito semplice. Da sempre si fregiano, e giustamente, del titolo di “unica democrazia del Medioriente”. Ecco. Come hanno fatto i servizi segreti di una delle nazioni con la tencologia militare e l’intelligence più efficienti della storia, nel paese che è la nuova California delle start-up, a non capire niente di niente, e a farsi trovare impreparati di fronte a un’azione evidentemente covata da mesi, e preparata nei dettagli, in un territorio di cui fondamentalmente controllano i confini? Non è una domanda dietrologica, non credo che questo attacco sia stato consentito perchè potrebbe perfino beneficiarne Netanyahu, come anche no. Davvero no. È una domanda più semplice, che in fondo va al cuore della dinamiche democratiche di un paese, di uno stato: non siete imbufaliti, voi che avete sacrificato anni di gioventù all’esercito, voi che avete perso amici e parenti in guerra, per difendere il vostro diritto a essere, nel vedere tanta distrazione, mentre accanto a un festival si preparava la carneficina? E davvero il sacrosanto diritto di esistere può concretizzarsi sempre e solo nella manifestazione della maggior forza postuma, e mai, mai più, nella forza iniziale, che richiede la fantasia e il coraggio che servono alla pace?
Ai palestinesi, infine, vorrei fare la domanda della vita, prima o poi. Ma cosa ci avete guadagnato, cos’avete creduto di poter prendere, di meglio, improvvisando la guerra ogni volta, e con mezzi impari, e potendo colpire solo chi non aveva colpa, se non quella di poter finalmente esistere, che dopo tutto è ciò che agognate anche voi? Ma forse è una domanda che potrei fare a diversi amici che ho, in Palestina, a Betlemme e a Ramallah, ma sarebbe difficile portarla a Gaza, che è un altro mondo, e tendiamo a volte a dimenticare anche questo.

Sono domande ingenue, lo sappiamo tutti. Di quelle che non si fanno più, per non fare brutta figura. Ma questa volta è diverso, dicevamo: e allora vale la pena di rischiare.

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CAT: Partiti e politici

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