La foto che vedete qui sopra compie esattamente dieci anni. Sembra un’immagine lontanissima. Lo è davvero. Son cambiate geometrie e protagonisti, ma una tendenza comune si è consolidata: voi votate per chi volete, che poi per governare un modo si trova. Che poi quel modo c’entri poco o nulla con quanto promesso o – peggio – premesso da chi avete votato, è ormai un dettaglio. La soluzione di emergenza di allora è diventata una lunga e multiforme “normalità”, in cui un popolo che insegue l’imbonitore di turno e una classe dominante che sa sopravvivere perfino a se stessa sono uno il miglior alleato dell’altra.
Lo diciamo subito, prima di cominciare: conosciamo la costituzione italiana e tutte le leggi elettorali con cui gli italiani hanno votato. Lo sappiamo che gli elettori, nel nostro paese, sono chiamati a votare i membri del parlamento e non i presidenti del Consiglio dei ministri, i ministri o tantomeno il presidente della Repubblica. E tuttavia, proprio perche vivono in una Repubblica parlamentare fondata sul voto popolare che dovrebbe tenersi ogni cinque anni, i cittadini italiani dovrebbero poter credere – quando votano – che il loro voto conti qualcosa. Dovrebbero anzitutto credere che se votano un partito che dice “mai” su qualche proposta politica o sull’alleanza con qualcuno, questo “mai” sia almeno un “quasi mai”. Dovrebbero, ancora, poter pensare che se votano qualcuno che dichiara fedeltà alla coalizione, quella fedeltà sia di regola rispettata. Dovrebbero infine poter pensare che se il partito e la coalizione per cui votano hanno fiducia in una persona, designata a rappresentarli a capo del governo, quella persona sia quella destinata a governare col loro voto, grazie al loro voto, salvo cataclismi. Non è – va ribadito – questione di conoscenza della costituzione ma di rispetto della fiducia nella politica, e nella sua pratica più alta, cioè la traduzione in azione del consenso popolare.
Perchè ne parliamo proprio oggi? Perchè esattamente dieci anni fa si insediava il governo guidato da Mario Monti, e a dieci anni tondi di distanza la data – abbastanza trascurata dai giornali e nella memoria collettiva – merita una riflessione. Non tanto per quel che ha rappresentato rispetto a ciò che successe prima, o successe nei mesi che portarono all’evento (certo fragoroso, come pure lo furono i preparativi). Ma tanto di più per quel che è successo dopo, per come – cioè – quel fatto si è cristallizzato in un costume politico e sociale che fino a quel momento aveva pochi precedenti, concretizzatisi in fragili e poco duraturi esperimenti. Di lì in poi, è stato abbastanza normale pensare a governi mai nemmeno paventati agli occhi dei cittadini, e sostenuti da coalizioni mai neppure lontanamente sottoposte agli occhi e ai pensieri dei cittadini. E quello che allora – almeno – si giustificava col finale un po’ sgraziato e in vario modo pericoloso di una grande (comunque la si pensi) epopea politica – quella di Silvio Berlusconi – ha finito col designare il nuovo standard di una democrazia elettorale che emette verdetti che si rivelano inutili. Nel medio periodo (un anno circa), se siamo fortunati. Sennò nell’immediato, a elezioni appena svolte.
Finita in una prevedibilissima debacle elettorale l’agenda di Monti, infatti, abbiamo visto nascere, in dieci anni, un governo politico di grande coalizione presieduto da Enrico Letta e giubilato da Matteo Renzi. Un Renzi allora neppure parlamentare diventare presidente del Consiglio, promettere di cambiare l’Italia e la costituzione, per passare dal 40 per cento al 18 in due anni. Al giro seguente abbiamo visto due partiti avversari – Lega e M5S – stringere un patto di governo che si cristallizzava nella figura sconosciuta di Giuseppe Conte. Un esperimento che, quantomeno, aveva il pregio della coerenza rispetto a parole d’ordine comuni di critica al sistema rappresentato dall’Unione Europea. Solo che, per combattere una battaglia impegnativa, ci vogliono spalle larghe e idee chiare, e solide. È bastato il sole del Papeete, un paio di estati fa, per seccare l’acqua che teneva insieme il castello di sabbia e farlo crollare sulla battigia. Parola agli italiani? No. In molti non hanno voluto ridargliela: a rivendicarlo, ancora oggi, è Matteo Renzi. Che era ancora dentro al Pd, seppure in minoranza, e sfidando e vincendo la linea dell’allora segretario Zingaretti chiese e ottenne il proseguimento della legislatura. Il Pd andò perfino al governo, proprio con quei 5 Stelle che erano stati il grande nemico della campagna elettorale di appena un anno e mezzo prima (ed era vero ovviamente anche il contrario). Il presidente del consiglio – forse lo ricordiamo ancora – fu nuovamente Giuseppe Conte: che il 3 agosto firmava il decreto Salvini bis, e il 18 di agosto lo scudisciava in diretta tv davanti al parlamento. Ma già a fine anno ci si preparava a una nuova giravolta, era nell’aria un’insofferenza di alcuni settori della maggioranza (Renzi, pensa un po’) e di alcuni pezzi di opposizione (Giorgetti) per quella situazione anomala. Si faceva insistentemente un nome nei corridoi che contano: quello di Mario Draghi, fresco di fine mandato alla Banca Centrale Europea. Parrebbe – dunque – che una pandemia mondiale abbia solo ritardato i piani di qualcuno. Non lo sapremo mai, e in fondo non è questo ciò che conta, in questa sede.
Quel che conta – e che volevo provare a ricordare – è che viviamo ormai in un’epoca politica del tutto nuova e, va detto, assai originale anche rispetto alla grande maggioranza dei paesi democratici occidentali. Il volo rapido sulle ultime legislature ci ricorda che, da dieci anni, il voto degli italiani tende a contare poco, quasi nulla, nel determinare i destini del governo del paese. Non è detto che sia un male, ma non può nemmeno essere assunto come un bene, come fanno invece le classi dominanti di questo paese. Sempre pronte a indicare i tanti i limiti e le responsabilità di un popolo troppo incline a dare retta all’ultimo imbonitore (è sicuiramente vero), ma mai abbastanza autocritiche nel delineare le proprie responsabilità, in questo processo. Primo tra tutti, è il pensiero prima dissimulato e oggi ormai rivendicato che una manovra di palazzo che depotenzi il voto popolare è sempre legittima, naturalmente se lo decidono “loro”. Ecco, questo decennio che ci separa da Mario Monti e da quel governo ci può insegnare molte cose. Una su tutte l’ha ricordata tra le righe proprio il senatore Monti qualche giorno sul Corriere della Sera: il suo, come quello di oggi, è un governo che ci è chiesto dall’’Europa. L’Europa di allora chiedeva lacrime, sangue, tagli e rigore. Quella di oggi no, anzi. Gli stessi editorialisti che sullo stesso giornale, allora, chiedevano di ridurre drasticamente la spesa e il debito pubblico oggi scrivono che “il debito pubblico è un concetto del secolo scorso”. Il tempo passa. Speriamo di non invecchiare troppo, prima di riassaporare il gusto di votare credendo, ragionevolmente, che serva a qualcosa.
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Se al governo ci fossero Salvini Meloni Berlusconi con presidente del consiglio Salvini o Meloni, ci sarebbe da espatriare. Vorrei domandar a chi si lamenta del “ce lo chiede l’Europa” , se ha idea di quale futuro per il paese Italia propongono i suddetti, oltre al leit motiv contro i migranti, ad affondare leggi di civiltà contro l’omotransfobia, (poi i gay ce li hanno in casa, assumono droghe e fanno festini con gli odiati migranti…), urlare contro le Unioni civili? La classe dirigente di un paese ha pure il dovere civile di impedire che il paese sprofondi nella barbarie. E per questo meno male che l’Europa c’è. Ma poi nel passato, ai tempi di Andreotti, Craxi, Forlani, De Mita and so on il voto degli italiani contava?
Quindi non ho capito: se il popolo vota “giusto” bene, se vota “sbagliato” allora la “classe dirigente” ha il dovere di fare “giusto” lo stesso? Secondo questa logica l’ideale sono le “repubbliche democratiche” monopartitiche, tipo la DDR o la Cina, così voti (= democrazia!) ma voti sempre “giusto”. Mamma mia che angoscia ragazzi..
Ci saremmo risparmiati Mussolini e Hitler.