Sotto il cielo di Lombardia, dove la destra vince dal secolo scorso

14 Febbraio 2023

La cronaca e la storia, a volte, si fondono e creano una continuità così precisa tra presente e passato che sembra inimmaginabile pensare a un futuro diverso. È quello che succede, ad esempio, guardando a quando il popolo vota in Lombardia. Quassù, nella regione più ricca e industrializzata d’Italia, succede sempre la stessa cosa: il centrodestra, o la destracentro, come vezzosamente la definisce Daniela Santanchè, o la destra e basta, semplicemente vince. Spesso stravince. Gli altri perdono. Le elezioni regionali di questo febbraio del 2023 sono l’ultimo episodio di una saga ormai noiosa, di una serie storica che sembra infinita, iniziata com’è nel 1994, quando Silvio Berlusconi ha fondato la destra di governo in Italia. Non a caso quella storia è iniziata ad Arcore, nel cuore brianzolo della Lombardia, dopo anni di lavoro tra Milano e Cologno Monzese, sede di emittenza delle note reti televisive, e ha avuto in Milanello – comune di Carnago, provincia di Varese – uno dei luoghi simbolo di un destino vincente. Non a caso, ovviamente, questa storia di incontrastato successo ha avuto in un tempo che sembra ormai remoto Umberto Bossi da Cassano Magnago uno dei grandi protagonisti, e la Lega da lui fondata uno degli anelli di congiunzione tra le passeggiate in canottiera per gli ettari di Arcore del 1994 e l’aria smunta di Attilio Fontana, il trionfatore di oggi. Vista così, con il grandangolo aperto, quella lombarda è la storia di un esperimento politico di grande successo, che in questa terra – quella di cui sono una volta figlio e molte volte nipote, amico, avversario, sodale – ha trovato l’abito costruito su misura, e non è una coincidenza: perchè su questa terra quel vestito, ormai trent’anni fa, è stato ritagliato al centimetro. Vista così, questa storia, fa svanire e sfumare in un indistinto omogeneo le facce di tanti che sono stati e ancora sono protagonisti: i Formigoni e i Maroni, i Salvini e i Fontana. Anche i forestieri che adesso surfano sull’onda del grande fiume, come Giorgia Meloni, finiscono col perdere contorno e dettaglio, in una storia più grande di loro.

Il dettaglio, però, va invece conservato, almeno per quel che serve a capire una realtà che viene da lontano, ed è destinata a restare in mezzo a noi. L’affluenza crolla al 41% degli aventi diritto, e rispetto alle elezioni politiche di cinque mesi fa i lombardi che non vanno a votare sono circa due milioni. Le proporzioni dei voti espressi, tuttavia, restano sostanzialmente le stesse, e anzi si accentua di un po’ il divario a favore del centrodestra. Il risultato smentisce alcune favole poco credibili che sono state raccontate nei mesi scorsi. La più evidente è quella che voleva Letizia Moratti, candidata in Lombardia per il Terzo Polo di Renzi e Calenda, capace di ottenere molti voti in più rispetto a quelli (il 10,15%) che il suo partito aveva sommato alle ultime elezioni politiche. Ne ha presi invece di meno. Non solo in termini assoluti, come ovvio a fronte di un calo di affluenza così drastico, ma anche in termini relativi. La sua candidatura si ferma alla soglia del 10%, e fa impressione pensare ai fiumi di inchiostro che sono stati versati per spiegare che il suo valore aggiunto avrebbe disarticolato il centrodestra, o che la sua candidatura era una grande occasione perduta dal centrosinistra. L’impressione cresce ulteriormente se la si confronta con il faraonico investimento che l’ex sindaca di Milano ha messo a disposizione della campagna elettorale. Un grande budget, per un risultato infine davvero modesto. L’altra convinzione che esce distrutta da queste elezioni è quella secondo la quale il lascito della pandemia, il fiume di morti e dolore che il covid ha lasciato, durante la prima ondata, in Lombardia, avrebbe presentato il conto al governatore uscente Attilio Fontana, e a beneficiarne sarebbero stati i suoi oppositori o i suoi ex sodali, come Letizia Moratti, che da ex assessora alla sanità e vicepresidente fondava il proprio racconto proprio sull’efficienza di una campagna vaccinale che, invero, ha funzionato piuttosto bene in tutte le regioni in cui funziona dignitosamente il sistema ospedaliero. Anche questa convinzione, per ragioni che sono tutte da studiare, si è rivelata del tutto infondata. In mezzo a tante false credenze, però, si sono viste confermate alcune vere convinzioni. I dati di dettaglio che escono dalle urne ci mostrano una regione che, in alcune aree urbane, continua a preferire i candidati di centrosinistra, mentre appena fuori dalle città la destracentro dilaga. A Milano città, ma anche a Bergamo e a Brescia, come nella storica Mantova “mezza emiliana”, Majorino vince, seppur non raggiungendo mai la maggioranza assoluta dei voti espressi. Ma perde in tutte le province, anche quelle in cui il capoluogo è più favorevole. Fontana dilaga nella Lombardia del nord, con sfumature che sottolineare sembra superfluo, tanto è schiacciante la proporzione. Nelle stanze dei partiti e tra gli appassionati di politica ci si esercita, perfino stavolta, a cercare somiglianze e differenze con “le ultime volte”, a valutare se Gori aveva fatto meglio, 5 anni fa, o se uno schema di alleanze diverse potesse contare qualcosa. Sia detto in breve: sono tutte questioni irrilevanti, e il discuterne rischia di essere insieme frutto e propulsore di sterile frustrazione.

Perchè in realtà, volendo parlare di cose serie, la Lombardia rivela e illumina, tutta al suo interno, una questione epocale che attraversa tutto l’occidente democratico. Le aree urbane ricche e “al sicuro” tendenzialmente votano per i “progressisti”. Il resto vota a destra. Una volta, appena qualche lustro fa, in Lombardia avremmo detto – semplicisticamente – che a votare a destra erano imprenditori e artigiani che votavano chi prometteva meno tasse, o di chiudere un occhio sull’evasione. Ma oggi questo mantra, seppur spesso ripetuto con prigrizia da sinistra, rischia di non cogliere più una società che sta cambiando, e una regione ancora dinamica, eppure invecchiata. La contrapposizione tra centri urbani ricchi e contemporanei e contadi incanutiti e sopaventati, infatti, va accentuandosi, mano a mano che un modello di sviluppo fondato sulla piccola e media impresa mostra la corda. Mano a mano che il turismo delle valli lombarde, degli impianti di risalita in montagne in cui non nevica più, ha lasciato alle sue spalle solo catorci di lamiera difficili da smaltire e impossibili da riattivare. Mano a mano che lo spopolamento di campagne fertile e avanzate tecnologicamente ha obbligato a sperare che i migranti arrivati da mezzo mondo volessero fare la vita faticosa della campagna, quella che “i nostri non volevano fare più”: sempre che “i nostri” esistano ancora. Perchè uno dei problemi sempre troppo taciuti è che in Padania non c’è più abbastanza gente: in fabbrica, in campagna, o in ospedale a lavorare.

A questo dolente cambio di paradigma, una delle regioni più ricche del mondo è arrivata impreparata. Impreparata nella società, impreparata nella classe dirigente. Chi governa, come ha fatto e farà Fontana, spera ancora che alla fine il genius locii continui a produrre frutti, lavoro, sviluppo e tasse. Succederà, perchè una storia gloriosa non finisce di colpo: ma sperare che duri per sempre non è mai una buona idea. Chi fa opposizione, a parte qualche marginale battaglia sui diritti civili o qualche protesta invisibile sulla sanità, sembra non aver alcuna idea. Soprattutto, sembra mancare della voglia di conoscere una terra ostile, in cui non ha mai toccato palla, dal 1994. Alla quale ci si presenta daccapo ogni volta che si vota, inventandosi una candidatura negli ultimi tre mesi, per poi inabissarsi nuovamente nell’oblio di una burocrazia che ai lombardi dà tendenzialmente fastidio quando li riguarda: figurarsi quando è roba dei politici.
Quello che è successo ieri, insomma, è solo un altro fotogramma di un film che ci riguarda tutti, anche i non lombardi, perchè riguarda la più ricca e popolosa regione italiana. Governata, ancora una volta, da una giunta nata vecchia come vecchio è lo schema e l’attitudine di chi si propone da decenni come alternativo. È molto strano che tutto questo passato goda di ottima salute in una regione moderna, sviluppata, industrializzata, e che ha al suo centro una città vivace e vorace come Milano. Sono contraddizioni che questa terra si porta dietro da un po’. Iniziare a discuterne seriamente, a prescindere dai colori politici, renderebbe un servizio alla qualità della politica e al futuro del paese. Che, per definizione, non può fare a meno della sua regione più “moderna” e, al contempo, più conservatrice.

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CAT: Partiti e politici

Un commento

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  1. dino-villatico 1 anno fa

    Ma solo in Lombardia, Jacopo? Come è accennato anche nell’articolo, la tendenza sembra planetaria. Tuttavia, ciò che sembra particolare della Lombardia, credo invece che sia il segno, o il sintomo, di una debolezza economica, sociale e politica tutta italiana. Al solito, anche in questo, la Lombardia precede, o aggrava, ciò che sta accadendo nel resto del paese. Si è creduto di convertirsi in potenza industriale affidandoci alle iniziative di singoli, e separati tra loro, piccoli imprenditori. Si è dimenticato che, come l’Olanda, potevamo fare della nostra agricoltura – avevamo la Val Padana! – la nostra industria. E invece abbiamo costruito un castello metallurgico di sabbia, che è crollato, e si è portato dietro anche il crollo di possibili imprese industriali, l’alberghiera e turistica, l’agricola, l’universitaria. E così ora siamo un paese senza vera agricoltura, senza università competitive, salvo locali eccellenze, senza catene alberghiere, senza letteratura, senza musica né teatro. Buen provecho, dicono gli ispanofoni.

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