Sul masochismo della sinistra

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14 Maggio 2015

Il premier Renzi si affanna a denunciare in questi giorni il masochismo della sinistra, il suo frazionismo antagonista, il suo politicismo esasperato e “immaginario”. Non ha tutti i torti. Giova riprendere pertanto alcune vecchie note già apparse altrove su questa vera e propria sindrome della sinistra. 

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A volte pare di toccare con mano la certezza  che la sinistra non voglia vincere in questo Paese. Perché? Perché c’è un pezzo di essa  che soffre di masochismo, non un masochismo sessuale, evidentemente, ma  politico. La formula che spiega questo desiderio di sconfitta è questa: « È perché ho perso che ho vinto». Sì, solo perdendo c’è un pezzo di sinistra che può attestare la propria funzione primaria: l’ideale come meta spirituale, la testimonianza come intima convinzione, l’opposizione come comportamento politico. Anzi, nel peggiore dei modi essa perde, più può attestare la propria naturale idiosincrasia per l’esercizio del potere:  il proprio, non il potere  della destra, che essa invece inconsciamente vuole trionfante, prepotente, con lo stivaletto puntato sul proprio petto.  Perché la destra, come direbbe Gadda, Shakespearizza la sinistra.

Già il potere, questa porcheria: non lo strumento per l’esercizio e realizzazione  dei propri ideali e dei propri programmi, ma un cosa sporca «in sé e per sé». Forse è proprio per questo che il governo di sinistra più odiato a sinistra è quello D’Alema, il primo vero governo di sinistra. Al  quale è stata sempre rimproverata  l’azione militare in Serbia, eseguita sotto il comando della Nato, nella cornice di accordi e obblighi internazionali,  ma considerata  a sinistra il massimo della nequizia e dello sperdimento di sé. Non scherzarono, a dire il vero,  né i Rossi né i Turigliatto dei governi di centro sinistra successivi guidati da Prodi. Costoro venivano per così dire ispirati da un uomo che non era mai stato comunista in vita propria, Bertinotti, ma che aveva destramente (nel senso di veloce abilità, eh) coperto uno spazio politico che si era improvvisamente reso disponibile e la cui conquista gli valse un  decennio di narcisismo salottiero romano.  Un Bertinotti che seppe dare voce alla naturale propensione della sinistra: l’opposizione dura e pura, antagonista e alter-mondialista.

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Ora, esce in Francia un pamphlet  che sembra scritto in Italia o per l’Italia. Cette obscure envie de perdre à gauche di Jean-Philippe Domecq  (Denoël 2012). Questa oscura voglia di  perdere a sinistra: segno che il problema è avvertito come costitutivo dell’essere sinistra, anche al di là delle Alpi e nel mondo.  E già dalle prime battute appare il quadro concettuale, a noi più che noto,  in cui si muove l’indagine di Domecq.  «La sinistra non ama il potere. Non ama per nulla questa cosa: “il Potere” come essa solo lo sa pronunciare, e come non lo pronuncia  mai la destra … Detto in altro modo, la sinistra perde per colpa della sinistra… C’è sempre qualcosa, sempre una buona ragione di sinistra, di essere contro, la sinistra. Di preferire l’opposizione, l’ideale, l’impotenza».

E il libro s’apre inaspettatamente con uno scenario americano piuttosto che francese. La sconfitta della sinistra americana  di Al Gore,  il 7 novembre del 2000 contro George W. Bush. Ricordate? Conteggi e riconteggi di bollettini di voto  punzonati, interpellanze  della Corte Suprema  della Florida a prevalenza schiacciante di giudici conservatori e  con lo steso  stato della Florida  governato dal fratello di Bush. Insomma alla fine  Al Gore sa di avere vinto, ma sa a anche che Bush e i suoi non avrebbero mollato. Gore combatte, ma senza quella forza sfrontata che è tipica della destra:  la sua “forza ancestrale” la definisce Domecq. Gore  è maturo e responsabile più del suo avversario  e alla fine si ritira dalla contesa facendo prevalere l’interesse del Paese rispetto al suo. E per  537 contestatissimi voti vince Bush. Ma vince forse per questo Bush, in verità? No, vince perché un pezzo di sinistra americana, ben 2.834.410 elettori,  vota per  l’esponente ecologista Ralph Nader di cui si sapeva  perfettamente che non avrebbe avuto alcuna chance di vincere! Senza quel voto scisso a sinistra, il mondo avrebbe avuto un altro corso.  Niente guerra in Iraq e in Afghanistan per esempio. Certo gli ecologisti di Nader rimproverarono a Gore, già  vice di Clinton, la sbandata monetarista in economia che lo indusse a liberalizzare  la finanza innescando  la bomba che sarebbe esplosa nel 2008 con la Lehman Brothers;  ma dopo tutto Al Gore era l’uomo politico sinceramente ecologista che per il suo impegno nel settore otterrà nel 2006 il premio Nobel per la Pace.

Qualche spiegazione si avanza. La sinistra vuole il Bene, e già questo spiega perché essa non raggiunge il potere, che si inscrive nell’orbita del relativo e non dell’assoluto.  E proprio questo  che non fece vedere agli elettori di Nader  il pericolo della loro scelta.  Come si chiama quel fatto  psichico di veder sopraggiungere ciò che si teme, e fare in modo che esso accada ugualmente? Noi l’abbiamo battezzato con il termine preso in prestito dalla psicoanalisi: masochismo. Gli elettori di Nader respingono questa impostazione anche quando li si mette davanti alla responsabilità del loro errore di giudizio.  C’è una malafede nella fede, soprattutto nella sinistra radicale!

Altro corollario. La voluttà  di essere “contro” è tutto ciò che vuole colui che vota contro ciò che vuole! E qui che si colloca la sinistra radicale «la sinistra insoddisfatta della sinistra. Questa sinistra talmente esigente che preferisce che tutta la sinistra perda piuttosto che vederla non compiere, una volta al potere, ciò che la sua  piccola cerchia esige».  Ma questo elementare fatto psichico lo aveva già capito Berlusconi quando dava grandissimo spazio nelle sue tivù ai Bertinotti, ai Sansonetti.  E di recente stava cominciando questo giochino con Niki Vendola aprendogli le pagine del suo settimanale di gossip.

La sinistra si oppone alla sinistra, mentre invece la destra fa blocco. La sinistra è concentrata  sulle proprie delusioni, che si rinnovano a ogni scadenza. La destra non perde mai la bussola e punta sempre a ciò che conta: vincere e conservare il potere.  Entra dunque in azione un’etica dell’irresponsabiltà e un’attitudine allo scacco. Ce n’è anche per noi, e Domecq cita la caduta del primo governo Prodi avvenuta per un voto il 9 ottobre 1998.  «Non è glorioso in virtù di un  “più a sinistra” pugnalare tutta la sinistra per far tornare una destra dai denti affilati»?. «Berlusconi è quello che è, ma se ha governato per così tanto tempo, è perché una certa sinistra “quella del piuttosto niente che piuttosto”, aveva bisogno di lui per godere, in tutta impotenza, della demonizzazione del ‘Potere’, in sé».

Completa il quadro la liquidazione di Lionel Jospin per mano della sinistra radicale francese  che il 21 aprile 2002 non lo votò preferendogli i suoi candidati e lo fece arrivare dietro a Le Pen. Singolare è stato in questo rifiuto del potere da parte della sinistra  l’alone di sospetto che ha circondato l’unico uomo di sinistra che con il potere ha avuto un rapporto non sublimato né rinunciatario: Henri Mitternad. Al presidente francese, assistito da formidabile  esprit florentin (che altri chiamano fiuto politico),   è stata rimproverata l’imbarazzante capacità di manovra, che si perdona volentieri a destra, senza pensare che solo con questa abilità politica ha mantenuto la sinistra al potere per molti anni.

La sinistra è pudibonda con il potere come il XIX secolo con il sesso. Il bovarismo della sinistra, quel concepire il mondo diverso da quello che è, quel  disgusto del reale nutrito da  chi vive in un ideale sempre lontano, vuole che il potere è da considerarsi una cosa sporca, che sporca. Non ha torto, in fondo. Prendere il potere significa  “sporcarsi le mani” assumere che la politica è una coniugazione di ideali e interessi, significa confrontarsi  con la società, sempre animata da interessi contraddittori, di cui occorre far sprigionare la dinamica, e per conseguenza federarli e trasformare le contraddizioni in combinazioni. Il compromesso con il reale non è visibilmente  l’ideale  per il bovarismo della sinistra. Il potere è poter fare.  Rifiutare il poter fare  e preferirgli  l’impotenza connota un’etica dell’irresponsabilità.

La sinistra è stata abituata a spingere le proprie mete ideali lontano nello spazio e nel tempo. È meglio altrove o domani, un lontano domani per quella sinistra radicale sfortunatamente decisiva. Ricordiamoci l’epoca in cui l’ideale era altrove, l’URSS, la Cina, Cuba. Si evitava di verificare: era fortunatamente lontano,  fino a quando André Gide per la Russia e Simon Leys per la Cina si occuparono di aprire gli occhi a tutti. Ma c’è un lontano non più spaziale, ma temporale. L’avvenire, questa specie di teleologia della teologia politica del XX secolo.

Da sempre la sinistra s’è trovata minoritaria rispetto a una destra governante. Quasi sempre all’opposizione negli ultimi due secoli di democrazia ha rappresentato una subordinata rispetto al potere reale, sempre tacciata di mancanza di realismo da chi governava. Alla sinistra le nuvole e l’avvenire lontano, alla destra la terra, il passato e il presente battuto da moneta sonante.

Cos’altro c’è da aggiungere? Aspettiamo la prossima puntata. Si svolgerà in Liguria alle prossime regionali.

 

TAG: elezioni regionali 2015, Jean-Philippe Domecq, masochismo della sinistra italiana, Matteo Renzi, sinistra italiana
CAT: Partiti e politici

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