Tinagli (PD): in Europa servono passione, dedizione e determinazione

30 Maggio 2024

Eletta al Parlamento Europeo nel 2019 per il Collegio Nord-Ovest, Irene Tinagli è stata nominata Presidente della Commissione Problemi Economici e Monetari: una posizione che le ha consentito di unire la sua formazione economica alla sua passione politica.

Tinagli è un’economista che si è formata all’Università L. Bocconi di Milano e all’Università Carnegie Mellon di Pittsburgh, negli Stati Uniti, dove ha conseguito un Master of Science e un Dottorato in politiche pubbliche. Dopo la specializzazione ha iniziato la sua carriera accademica all’Università Carlos III di Madrid e ha collaborato con numerose istituzioni internazionali, come l’ONU a New York e la Commissione Europea.

La passione per l’impatto delle politiche pubbliche nella società e nell’economia reale l’ha portata ad impegnarsi sempre più attivamente nel dibattito politico, sia come autrice di libri e di articoli per i principali quotidiani nazionali (è stata editorialista per La Stampa), sia partecipando ad associazioni e think tank, fino alla candidatura che, nel 2013, l’ha portata ad essere eletta alla Camera dei Deputati.

Dopo un mandato al Parlamento nazionale ha deciso di candidarsi alle elezioni europee del 2019. Da lì è iniziato il suo percorso nel Parlamento UE, che ha svolto con grande passione e dedizione, e che l’ha portata ad essere indicata più volte tra le parlamentari più influenti dell’europarlamento, soprattutto in materia economica.

Nel 2021 è stata nominata vicesegretaria del Partito Democratico, ruolo che ha ricoperto fino al congresso del Febbraio 2023.

E’ candidata alle elezioni europee 2024 con il Partito Democratico nella circoscrizione Lombardia, Piemonte, Liguria, valle d’Aosta.

Sul palcoscenico di questa campagna elettorale stiamo vedendo una nutrita serie di candidati differenti tra di loro. C’è chi si richiama a una determinata “matrice”, c’è chi scrive libricini che trasudano intolleranza, altri combattono battaglie a tutela dei diritti calpestati dei cittadini italiani all’estero. Ciascuno sventola il suo vessillo. Sulla sua bandiera vedo una parola scritta in bella calligrafia: competenza. Guardi che di questi tempi la competenza non è di gran moda.

Forse non è di moda ma è di necessità. Io penso che noi non potremo affrontare tutte le sfide che abbiamo davanti (non solo come Italia ma come Unione Europea) se non schieriamo le energie migliori, le competenze maggiori. Non soltanto in politica, anche se non farebbe male, ma in tutti i settori, quindi nell’imprenditoria, nell’università, nella ricerca, dappertutto.

Noi dobbiamo avere i migliori esperti che insieme alla politica lavorino per trovare delle soluzioni innovative, delle strade per poter affrontare queste sfide.

Lei ha presieduto i i negoziati che hanno portato ad approvare lo strumento da 725 miliardi di euro stanziati per la ripresa e la resilienza, che si sono poi tradotti nel PNRR, con l’obiettivo di supportare gli Stati membri nella difesa dei posti di lavoro e degli investimenti necessari per la crescita. Vorrei una sua opinione riguardo l’utilizzo che stiamo facendo in Italia di queste risorse. 

Questa domanda la dovremmo girare al governo, perché ancora ci sono molti interrogativi, ci sono dei buchi informativi.

Solo di recente stiamo ricevendo un po’ di informazioni dettagliate, ma manca a mio avviso una visione precisa di tutto quello che è stato modificato e stralciato. E’ necessario sapere a che punto siamo e cosa ci aspettiamo realisticamente di realizzare entro la fine di questo anno e del prossimo, fino alla scadenza.

Questa è a mio avviso l’urgenza più grossa che abbiamo, sia in Italia sia in Europa, al di là delle rate e delle scadenze formali. Il PNRR non è solo compilare una lista di cose e cercare di metterci a fianco una crocetta dicendo semplicemente: fatto, fatto, fatto.

Il vero risultato lo vedremo se ci sarà un reale impatto sulla crescita, sull’innovazione, su un incremento dei servizi, perché era stato pensato per questo. Era destinato a fare ripartire l’economia, la ripresa e la resilienza, cioè cambiare le società e le comunità, per renderle più forti e da qui tutti gli investimenti su asili, ospedali, studentati, case popolari.

Salvo rare eccezioni, il superbonus edilizio 110% introdotto nel maggio 2020 dal governo Conte bis e la relativa cessione dei crediti d’imposta hanno trovato il sostegno di tutte le forze politiche, da sinistra a destra. Ad aprile 2024 il costo del provvedimento è stato stimato in 160 miliardi di euro e oggi pesa quanto una macina di mulino sulle prospettive di spesa future del Paese. Al di là della gestione in parte truffaldina degli impieghi, agevolata da controlli quasi inesistenti, dove avete sbagliato?

Io penso che ci siano stati due tipi di errori. Uno è riscontrabile in come è stato disegnato, con il tema della cessione dei crediti, con scarsi vincoli in termini di capacità reddituali, di tipologia di case a cui renderlo fruibile, si tratta di un errore di progettazione, se vuole in parte giustificabile.

La giustificazione è che, essendo stato fatto nel periodo di crisi più nera dell’economia, proprio al picco della crisi legata al Covid, esisteva l’urgenza di rimettere in moto un settore dell’economia che da sempre è quello che reagisce più rapidamente, ovvero quello dell’edilizia. Sono pochi i settori industriali che riescono a reagire nel giro di pochi mesi, l’edilizia è invece un settore che riesce a essere messo in moto più rapidamente sul territorio.

L’altro errore, quello più grave, è stato quello di non essere stati in grado di mettere una fine al provvedimento e quindi di non essere stati capaci a un certo punto di chiuderlo.

Sulle proroghe ci sono state molte responsabilità, io mi ricordo ad esempio le battaglie di Salvini per allungare la proroga anche per le villette unifamiliari, eccetera eccetera. Bisognava invece avere il coraggio politico di chiudere prima, quando comunque ormai la fase peggiore della crisi del Covid era stata affrontata.

Certamente ci sono state anche delle complicazioni tecniche perché non era semplice in tutto il territorio capire a che punto fossero i lavori, verificando la loro percentuale esatta di avanzamento, però c’è stata soprattutto, a mio avviso, una miopia politica.

Di questo impiego di denaro pubblico così disinvolto cosa pensano i suoi colleghi europarlamentari stranieri? 

La misura della concessione di forti incentivi per l’efficientamento e  la ristrutturazione, soprattutto nel periodo del Covid, l’hanno messa in campo un po’ tutti.

Il tema del 110% per come era stato disegnato ha implicato un aggravio dei costi, proprio perchè superava la soglia del 100%.

Si è trattato di una scelta che ha creato delle perplessità, non tanto al momento del disegno della misura coincidente con il momento nero del Covid, ma in in particolare dopo, quando si sono gestite le proroghe. Lì qualche perplessità effettivamente c’è stata.

Due temi stanno diventando sempre più centrali nel dibattito pubblico internazionale, in Italia purtroppo meno che altrove. La tutela dell’ambiente attraverso la fuga dai combustibili fossili e la necessità di creare una difesa comune. Sia il passaggio alle fonti green sia la creazione di un esercito comunitario hanno un costo rilevante. In questa fase possiamo permetterci una spesa del genere?

Purtroppo io temo che sia una necessità difficilmente eludibile e quindi, per quanto difficili e onerose, queste sono due priorità che dobbiamo trovare il modo di realizzare.

Ma non è una questione riconducibile al solo tema della riduzione delle emissioni o dell’andare verso un mix energetico diverso. Non è soltanto una questione ambientale ma è anche una questione di autonomia strategica, di riduzione della dipendenza da paesi che a livello geopolitico sono per noi delle incognite.

Paesi stranieri che ci rendono fragili, per cui penso che il tema energetico e il tema più ampio di una difesa interna (nella quale anche il tema energetico ha un ruolo) sono due necessità che non possiamo permetterci di ignorare. Ne abbiamo avuto una dimostrazione palese con la guerra in Ucraina.

Come le affrontiamo queste sfide?

Bisogna essere molto pragmatici e mettere in campo strumenti concreti.

Lo abbiamo fatto in parte con il Recovery, perché il Recovery quando lo abbiamo strutturato non è stato solo mettere in campo numerosi miliardi di euro per una generica “ripresa”. Gli abbiamo dato delle direzioni molto chiare, che comprendevano ad esempio il tema della transizione ecologica e della digitalizzazione, dell’efficientamento energetico. Queste priorità richiedono degli investimenti che non si esauriscono né con il Recovery né con il Repower EU.

A questo punto è necessario non essere ipocriti e dire apertamente che  dobbiamo avere un’Unione Europea con un bilancio più corposo, un’Unione Europea che si dota di alcune risorse proprie.

Una UE che decide di mettere anche in campo dei fondi a sostegno degli investimenti che possono avere una struttura diversa rispetto al Recovery. Risorse che magari invece di essere destinate a finanziare investimenti nazionali possono essere direzionate a finanziare progetti comuni europei. E tra questi ci può essere quello di una difesa europea o quello di una politica energetica europea che utilizza infrastrutture energetiche europee.

A quel punto  potremmo davvero fare un salto di qualità e andare avanti nel raggiungimento di questi obiettivi. Dovremmo poi incentivare una maggiore mobilitazione dei capitali privati, perché comunque in Europa ci sono una quantità di capitali privati che non riusciamo a canalizzare su investimenti importanti e prioritari per la nostra economia. E questo semplicemente perché ancora la nostra Unione Europea non è un vero mercato unico per quanto riguarda gli investimenti, la finanza, il sistema.

“Il mercato dei capitali”, ce lo hanno ricordato sia Draghi che Letta, è un tema che non viene quasi mai affrontato, pur diventando  fondamentale nel momento in cui si devono affrontare sfide che richiedono investimenti enormi che probabilmente non riusciremo a coprire solo con risorse pubbliche.

Se dipendesse da lei toglierebbe la clausola che prevede il voto unanime dei partecipanti al Consiglio d’Europa consentendo di fatto l’apposizione del veto anche a uno solo dei Paesi aderenti?

Sì, ho votato la risoluzione del Parlamento a novembre che prevedeva esattamente questo tipo di modifica ai trattati.

Sono consapevole che ci sono delle sfide politiche importanti e che è un passaggio da non prendere alla leggera. Passare a maggioranza significa dare veramente all’Unione Europea in quanto tale dei poteri importanti ma significa anche prendere consapevolezza che puoi finire in minoranza.

Io penso che un grande paese come l’Italia non debba temere questo, perché un paese come l’Italia, un paese fondatore che ha una capacità economica, culturale, industriale di rilievo,  può essere capace di stare in Europa con un peso politico importante.

Tanto è vero che tipicamente i veti vengono messi più da piccoli paesi che non hanno altri strumenti diplomatici o culturali o economici per farsi valere. I grandi paesi come la Germania, la Francia, l’Italia credo che abbiano tutte le capacità di stare dentro a un’Europa che decide a maggioranza.

In Italia il centrodestra governa, in Francia Marine Le Pen sembra godere di una popolarità sinora mai raggiunta. In Spagna Vox è dato al 10%, Orbàn in Ungheria governa saldo e strizza l’occhio alla Russia. Populismi, nazionalismi, nostalgie che pensavamo ormai sopite tornano alla ribalta. Il nuovo vento che spira da destra può mettere in pericolo l’equilibrio dell’Europa oppure siamo davanti a un temporale estivo, violento ma passeggero?

Adesso è un pezzo che abbiamo ondate di nazionalismi che periodicamente riaffiorano e mettono un po’ in discussione e in crisi l’assetto europeo. L’abbiamo visto con la Brexit…

Poi questa tendenza è rientrata perché nel periodo delle grandi crisi, del Covid dell’Ucraina, è tornato un forte spirito europeista.

Abbiamo visto quanto è necessario e importante avere l’Unione Europea al nostro fianco di fronte alle crisi, tanto è vero che oggi anche  tra questi nuovi sovranisti e nazionalisti quasi nessuno predica l’uscita dall’Unione Europea e l’uscita dall’Euro. Quindi c’è un’evoluzione anche in questi movimenti che comunque restano un rischio perché in ogni caso rallentano quel processo di integrazione europea che a mio avviso non è più rinviabile.

Il rischio che vedo adesso non è tanto quello di una disgregazione dell’Unione europea, di un’uscita dall’Unione o di un’uscita dall’Euro. Il rischio che vedo è che una vittoria o comunque un aumento di peso politico di queste forze, all’interno del Parlamento europeo e delle istituzioni europee, possa frenare o addirittura far tornare indietro il processo di integrazione che invece ha realizzato dei progressi in questi anni durante le crisi. Restare fermi o addirittura tornare indietro su alcune tematiche oggi come oggi è pericolosissimo, perché il resto del mondo non sta fermo.

Come Unione Europea dovremo far fronte alle pressioni geopolitiche, all’aggressività della Russia, alla crescita della Cina su alcuni fronti, alle politiche industriali degli Stati Uniti che stanno diventando sempre più imponenti e stanno rendendo gli Stati Uniti più competitivi.

Tutto questo noi lo subiremo sempre di più se non saremo in grado di portare l’asticella un po’ più in alto a livello di integrazione europea.

In Russia Putin nazionalizza le aziende straniere. Il caso Ariston è recente. Lei sarebbe d’accordo nel rendere la cortesia utilizzando  i proventi delle attività russe in Europa a favore ad esempio dell’Ucraina? 

Sono due cose che metterei su piani diversi, sono sempre molto cauta, non è che se uno fa una cosa sbagliata la devo fare anch’io.

La nazionalizzazione improvvisa è una frattura, un vulnus nella credibilità internazionale, nello stato di diritto e crea delle incertezze. L’utilizzo delle risorse congelate ha delle difficoltà legali, su cui so che si sta lavorando anche a livello di Commissione europea, perché è anche importante che l’Unione europea resti un ambito dove gli investitori possano essere sicuri del mantenimento delle regole di diritto internazionale.

Detto questo penso che sulla questione ucraina l’Unione Europea debba trovare delle risposte per sostenere, oltre alla resistenza, anche la ricostruzione di quel Paese.

Non ho una risposta facile a questa domanda, perché non è una domanda facile.  Se un autocrate come Putin fa una sciocchezza non è  detto che gli si debba andare automaticamente dietro.

Rispetto alla nazionalizzazione che ha fatto Putin, dalla sera alla mattina, la prima reazione è stata che il nostro ministro ha convocato l’ambasciatore russo eccetera eccetera. Ma in una circostanza di questo genere dovremmo avere un governo europeo, una politica estera europea, una politica economica e commerciale europea, che possa riaffermare lo Stato di diritto in maniera molto più forte e incisiva di quanto non possa fare un singolo ministro di uno Stato membro.

Esattamente dieci anni fa lei pubblicò un libro dal titolo “Un futuro a colori. Scoprire nuove opportunità di lavoro e vivere felici” rivolgendosi a chi era alla ricerca di una realizzazione di lavoro e di vita. Visto come si è strutturato, o destrutturato, il mondo del lavoro di questo ultimo decennio lo riscriverebbe ancora?

Sì, quello che cercavo di raccontare era una narrazione dedicata ai più giovani. Io all’epoca insegnavo all’università, quando ho iniziato a scrivere questo libro avevo a che fare con tanti ragazzi, tanti giovani che spesso erano un po’ spaesati e intimiditi e non avevano bene chiaro come disegnare o strutturare il loro percorso di studio e di carriera.

C’era già una certa frammentazione nel mondo del lavoro e quello che cercavo di comunicare era che se loro avessero cercato le proprie risposte nei racconti o nelle esperienze dei loro genitori e dei loro nonni  non avrebbero potuto davvero cogliere le opportunità che in realtà comunque esistevano.

E’ vero che da un lato abbiamo visto una destrutturazione del mercato del lavoro, però è anche vero che oggi abbiamo delle opportunità di studiare all’estero, di imparare, di misurarci in contesti diversi.

Abbiamo  tecnologie che erano assolutamente impensabili venti – trenta anni fa e le stesse aziende oggi sono molto più aperte, curiose, hanno anche profili diversi da quelle di un tempo passato. C’è una maggiore fluidità. E’ una una fluidità che mette in crisi, perché era forse più semplice quando c’erano le carriere tradizionali, la carriera dell’infermiere, dell’ingegnere, del commercialista, dell’avvocato.

Oggi è tutto molto più mischiato, questo mix crea anche una quantità di opportunità straordinarie. Il punto è avere un po’ il coraggio di buttarsi e di disegnare da soli il proprio percorso, utilizzando i vari ingredienti che troviamo nella società, nelle università, nei luoghi di lavoro.

Non era semplice però volevo lanciare un messaggio di speranza, perché in quegli anni incontrando i giovani ho raccolto delle storie straordinarie. Storie che trasmettevano ottimismo, un ottimismo che volevo provare a trasferire anche ai miei ragazzi. Oggi più che mai è importante aiutare i ragazzi a navigare questa frammentazione.

Secondo le rilevazioni di uno dei network di vendite immobiliari privati più importanti, nel mese di aprile 2024 il prezzo medio di vendita di un appartamento a Milano è stato di 5.386 euro/mq. Il costo di un affitto di 23,35 euro/mq. Avviciniamo questi valori alla costante perdita di potere di acquisto degli stipendi e chiediamoci se tutto ciò ha un senso compiuto. Una Milano polo d’attrazione per il mondo degli affari che però spinge fuori dai suoi confini studenti e giovani coppie (non parliamo dei single) che riflessioni le suggerisce?

Una riflessione duplice, perché il problema casa si interseca con due tipi di politiche e di valutazioni.

La prima è legata alle politiche di sviluppo urbano delle città che molto spesso, come nel caso di Milano, intraprendono un percorso di grande internazionalizzazione e di aumento della propria visibilità.  Tutto ciò inevitabilmente attira investimenti e fa crescere il valore immobiliare. In questi frangenti sono necessarie delle politiche, che vengono adottate un po’ in tutto il mondo, per cercare di mettere un argine a questo fenomeno che poi finisce per espellere fasce di persone che servono alla città.

Non soltanto i giovani e le giovani coppie, ma anche tanti lavoratori del settore dei servizi che non riescono più a permettersi di vivere in città.  E questo poi mette in crisi a catena anche aziende, imprese eccetera. Molte città cercano di adottare delle politiche per destinare delle quote di nuova edilizia all’edilizia sociale, coinvolgendo  fondazioni o facendo partnership pubblico-privato.

Questo è un aspetto su cui Milano ha lavorato bene negli ultimi anni per cercare di raddrizzare il tiro, ma penso che dovrà continuare a farlo in maniera molto più incisiva.

Poi ci sono delle politiche diverse, di natura regionale o nazionale, che sono quelle che cercano per esempio di intervenire sull’offerta di case popolari, sull’offerta di studentati, posti letto per studenti e così via. Su questo a livello europeo abbiamo cercato di dare un contributo dando la possibilità di utilizzare i fondi del PNRR per alleviare anche il disagio abitativo.

Il governo adesso è in ritardo, in grave ritardo, anche se noi avevamo messo, quando eravamo alla guida del Paese, molte risorse sulle case popolari e sugli studentati. Alcune regioni sono state brave, nel senso che hanno iniziato già nel 2021 a fare partire subito i bandi e ora stanno avviando i cantieri però noi dovremo immaginare delle politiche che possano proseguire su questa strada anche dopo la fine del PNRR.

E infine un ultimo fronte, la regolamentazione di un fenomeno che ha colpito tantissimo le grandi città come Milano ovvero il fenomeno degli affitti brevi. Questo governo aveva annunciato misure che dovevano essere incisive, risolutive e poi come spesso accade la montagna ha partorito il topolino.

Non abbiamo visto niente di rilevante, mentre invece su questo fronte altri paesi e altre realtà si sono mossi prima e meglio di noi perché si sono resi conto che c’era la necessità di dare delle risposte concrete alle persone.

Queste elezioni potranno dirsi fallimentari se non arriveremo almeno a una percentuale di votanti del…? Le polemicuzze verbali di questi ultimi giorni incentivano le gite fuori porta.

D’altra parte stiamo parlando di piccole polemiche, parolacce che non arrivano da un consigliere dell’ultimo Comune, è un tipo di politica che arriva dai massimi vertici dello Stato e del Governo, più del Governo che non dello Stato.

Per fortuna abbiamo il presidente Mattarella che mantiene alto il tono, però poi non è che abbiamo dei grandi esempi ai vertici del governo con cui focalizzarci sui temi, sulla visione, sulla costruzione di un’Unione Europea forte. Questo non ci aiuta.

Non faccio previsioni, mi auguro davvero che quante più persone possibile vadano a votare, che si rendano conto di quanto è importante l’Unione europea nella nostra vita. Di quanto è importante che nelle istituzioni europee ci siano forze europeiste e persone anche all’interno di queste forze vanno davvero a lavorare con passione, con dedizione, con determinazione per spingere questo processo sempre un po’ più avanti.

 

TAG: economia, elezioni europee, irene tinagli, partito democratico, Pd
CAT: Partiti e politici

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