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Partiti e politici

Toc toc, sono la realtà: il bivio finale dei populisti di governo

di Jacopo Tondelli
13 Gennaio 2023

C’è stato un tempo, tutto sommato non lontano, nel quale stare al governo da populisti non era poi così complicato. Pensate alla Lega di Bossi, tornata all’ovile del centrodestra berlusconiano con le elezioni del 2001, e a seguito di quelle al governo. Matteo Salvini vagava ancora per Milano da consigliere comunale, comunista padano, leghista laico sui diritti civili, razzista anti-napoletano da stadio, o qualunque altra cosa, pur di esistere, prima di spiccare il volo per il suo lungo e dorato apprendistato da parlamentare europeo. Bossi, sotto l’ombrello largo di un Berlusconi finalmente pronto a governare a lungo, dopo sei mesi di governo mal vissuto nel 1994 e stroncato proprio da Bossi, era pronto a compensare mille contraddizioni con le sue spalle larghe di imprenditore, politico, creatore di miti televisivi e di leggende calcistiche. E tutti insieme, sotto quel cappello, si poteva essere populisti senza rimangiarsi troppo di quanto promesso, o al massimo dare la colpa agli alleati troppo obbedienti a poteri forti nazionali o internazionali che, dopo tutto, erano più accettabili agli occhi dell’opinione pubblica di allora. Alla peggio, la secessione tornava a essere il federalismo, e per le scorrettezze contro meridionali e africani c’era sempre posto dopo il terzo amaro nei bar in riva al lago Maggiore, o nei tendoni alle feste di Pontida. Se poi succedeva un disastro geopolitico, ad esempio l’attacco alle Torri Gemelle, l’ombrello ancora più largo era quello dell’alleanza atlantica, e nella tragedia della guerra spazio per distinguersi ce n’era ancora meno.

Oggi è tutto, ma proprio diverso. In realtà sopravvivono diversi protagonisti, e molti hanno ancora – incredibilmente – un ruolo non marginale. Ma la realtà, tutto attorno, è cambiata. A cominciare dal fatto che la carica di governo più alta, che è occupata da una donna che dell’opposizione radicale a ogni governo che l’ha preceduta aveva fatto la sua bandiera. A differenza del centrodestra di vent’anni fa, che incorporava molti elementi di populismo ma complessivamente rivendicava di essere naturalmente forza di governo, la destra attuale è infatti egemonizzata da forze che hanno costruito la propria identità e le proprie aspirazioni integralmente all’opposizione. Alcuni hanno anche governato, a tratti e dentro a coalizioni molto diverse tra loro (è il caso di Salvini), Giorgia Meloni invece dopo qualche esperienza ministeriale di poco conto e peraltro molto risalente nel tempo si è trovata addirittura a fare la presidente del Consiglio. Ci arriva avendo gridato cose populiste per anni, e fino a pochi mesi prima di vincere le elezioni. Ci arriva senza più la protezione di Berlusconi a fare da assurdo eppure efficace parafulmine. Lo fa in un momento nazionale e internazionale molto complicato, nel quale lo spazio per fare i populisti, al governo, non c’è. L’ultima finestra “buona” per questo tipo di esperienze si è chiusa probabilmente con l’inizio della pandemia, cui hanno fatto seguito la faticosa ripresa di un mondo stordito, tutte le incognite sanitarie ed economiche, la guerra e l’inflazione alle stelle che sono arrivate dopo. Prima, in un mondo apparentemente stabile, si poteva ancora giocare col fuoco. Forse. L’ultima finestra si è chiusa di fatto in un giorno di agosto, al Papeete Beach, ed è ormai preistoria.

Adesso, i populisti al governo fanno più o meno quel che farebbero tutti. Spaccano il capello in quattro. Contano i soldi fino all’ultimo centesimo.  Prendono decisioni discutibili per definizione, ma in fondo razionali, come non tornare a tagliare le accise sulla benzina perché quei soldi e quelle entrate servono anche per trovare risorse “per i meno abbienti”. Hanno la fortuna, i populisti di governo di  oggi, di avere davanti un’opposizione che nella sua componente parlamentare più numerosa pensa soprattutto alle regole del suo congresso (lo dice Enrico Letta, probabilmente quindi è vero), e questo è un bel vantaggio. L’altro – ormai consolidato – è quello di un giornalismo che non fa domande, e così si evita la fatica di dover elaborare le risposte. Davanti, tuttavia, a Giorgia Meloni, resta una sfida, che è anche un grande dubbio: sopravviverà alla propria normalizzazione che lei stessa ha deciso e voluto? Il caso della benzina è solo uno, di fatto il primo che impatta direttamente su dinamiche che generano consenso e dissenso. Se le promesse rimangiate diventassero molte, e tutte risultassero dolorose per i suoi elettori, che effetti avrebbero sul consenso? Soprattutto: che effetto farà nel lungo periodo la trasformazione di chi ha urlato per anni, e adesso per anni si appresta a parlare con pacatezza spiegando la complessità? Non lo sappiamo. È una terra straniera per tutti. È una domanda cruciale, anche per il futuro sostanziale della democrazia italiana e non solo. La risposta interessa moltissimo a Meloni. Ma, non di meno, interessa a noi.

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