C’è sempre l’Europa dall’altra parte del tavolo. Di qui, dalla nostra parte, c’è l’Italia e il suo governo. Di là le istituzioni comunitarie e i governi dei paesi che dell’Unione fanno parte. A rileggere in filigrana i fatti degli ultimi giorni, delle scorse settimane e di quelle che verranno, si vede bene una dinamica che si aggiorna a seconda dell’agenda del momento, ma che in fondo si ripete uguale a se stessa. La settimana è iniziata con la coda lunga delle discussioni sul PNRR, è proseguita con l’incontro, molto politico per quanto istituzionale, tra Mattarella e Macron, e si è conclusa con l’accordo sulle nuove regole comuni sull’immigrazione, un accordo che vede l’Italia meloniana in linea con Francia e Germania e non con i naturali alleati politici del sovranismo esteuropeo di polacchi e ungheresi. Nel mezzo, solo apparentemente divergenti, ci sono due viaggi della presidente del Consiglio verso sud, un sud quanto mai vicino, a sostegno del governo autocratico e sull’orlo della bancarotta del tunisino Saied. Il secondo viaggio avviene addirittura in compagnia di Ursula Von der Leyen. L’obiettivo italiano è semplice, nella sua brutalità: puntellare quel governo, evitare che salti per aria, cedere perfino ai suoi ricatti, nel caso: tutto pur di evitare che rovesci centinaia di migliaia di migranti sulle nostro cose. Le più vicine per quel pezzo di Nordafrica. Come si vede, i temi della settimana sono tra loro diversi, eppure il filo comune è piuttosto evidente. Ci siamo noi e c’è il resto del mondo, e un po’ per storia, e molto per geografia, senza il resto del mondo davvero non possiamo vivere. Proprio noi che, da molti decenni, come minimo, siamo nell’occidente un avamposto antropologico della resistenza provinciale a quel che succede nel mondo dei capitali e dei movimenti globali.
Pensiamo, ripensiamo, alla questione del PNRR. Che appare e scompare dalle prime pagine dei giornali a seconda delle contingenze e delle polemiche che si scatenano e poi si quietano, ma che è destinato a restare sottopelle a lungo, e ad assumere ora la forma dell’opportunità di spesa, ora quella della necessità di controllo. Dopo le polemiche sulla Corte dei Conti e sui suoi controlli, di cui abbiamo parlato la scorsa settimana, le acque sembrano chetate, ma è solo un’illusione ottima. Devono arrivare i 19 miliardi della terza tranche, e deve essere presentata una revisione del piano. Il Commissario europeo ed ex presidente del Consiglio italiano Paolo Gentiloni dice che i ritardi accumulati finora dall’Italia sono gestibili, ma che non è il caso di accumularne di nuovi. Spiega, in modo specifico, che la rivisitazione del piano in questione ha bisogno di essere prediscussa, e quindi pre-approvata, con anticipo rispetto alla data di presentazione prevista per il 31 agosto di quest’anno. Sono parole che, a seconda della parte politica di chi le interpreta, vengono curvate da un lato, o da quello opposto. In realtà dicono oggettivamente una cosa sola: la partita più importante, per il futuro del governo e soprattutto del paese, è quella del PNRR, perché da come sarà applicato passa lo sviluppo futuro del paese e perché, almeno in parte, andrà ad aumentare il nostro debito nazionale ma anche il livello di integrazione europea. Non proprio cose da poco. Sarebbe bello e doveroso che se ne parlasse in maniera trasparente, matura, responsabile. Che lo si facesse in parlamento, che è il luogo nel quale sono rappresentati i citttadini italiani, e che i parlamentari rappresentassero al governo e agli italiani quel che ne pensano. Ma lasciamo i sogni nel libro dei sogni, e torniamo alla realtà.
Non sono questioni da poco, ovviamente, nemmeno quelle che riguardano le relazioni tra stati, e in particolare con gli alleati vicini di casa, come la Francia. L’asse tra Emmanuel Macron e Sergio Mattarella è solido, evidente, quasi smaccato, potremmo dire. Non è la prima volta che viene sottolineata pubblicamente una vicinanza tra due figure che hanno “lo stesso nome” – presidente della Repubblica – ma fanno mestieri diversi, in sistemi istituzionali diversi. Pochi mesi fa era stata resa pubblica, ad esempio, una telefonata tra i due presidenti, che servì a calmare le acque dopo uno scontro – tanto per cambiare – sulla gestione dei migranti. Anche questa volta la visita di Mattarella, formalmente agganciata all’inaugurazione della mostra “Napoli a Parigi” presso il Louvre, funge da ricucitura, da manutenzione dell’alleanza, e rafforza la sensazione che siamo in una nuova fase della presidenza Mattarella che, in questo secondo settennato, sembra pronto a giocare di più e con più forza il suo ruolo di garante istituzionale di un percorso politico che vede, comunque, in Giorgia Meloni un perno di stabilità. La madrina della definitiva normalizzazione della destra italiana.
È anche in quest’ottica che si può leggere il cambio di rotta del governo italiano in tema di alleanze intraeuropee proprio in materia di immigrazione. L’aver abbandonato l’asse sovranista con Polonia e Ungheria, per abbracciare la linea di Francia e Germania non è solo un sintomo di praticità e di tutela dei propri interessi nella battaglia materiale e simbolica ai migranti, ma è anche il frutto di una presa di coscienza – più cinica che umanitaria, ovviamente – che di propaganda anti-migranti le maggioranze di governo prima si ingrossa, ma poi finiscono col morire. Sul tema, insomma, non si può fare affidamento di lungo periodo per rafforzare il proprio consenso, e quindi un approccio pragmatico che punti davvero a coinvolgere gli altri paesi europei nella gestione del fenomeno è il segno – uno in più – di una strategia che porti Meloni e il suo partito a stare a pieno titolo nella casa del conservatorismo europeo “affidabile”. Non a caso, la Presidente del Consiglio che è anche la capa del primo partito italiano, lavora per avvicinare il suo partito post-fascista ai popolari europei, complicando la vita al suo socio di minoranza Matteo Salvini. Cosa succederà lo vedremo nel tempo, ma la strategia del ragno è piuttosto chiara.
Nel quadro grande della geopolitica, spiacerebbe perdere frammenti significativi che dicono che paese siamo, eravamo, stiamo o non stiamo diventando. Segnalo, in chiusura, due storie. La prima riguarda il giornalismo italiano. Uno dei più potenti imprenditori italiani, Francesco Gaetano Caltagirone, re del mattone a Roma, partecipazioni finanziarie pesanti, ruoli conseguenti in diversi cda del capitalimo italiano, ha anche diversi giornali, tra cui Il Messaggero di Roma e il Mattino di Napoli. Fino a qualche giorno fa ne era vicedirettore un noto giornalista finanziario italiano, Osvaldo De Paolini. Si è dimesso all’improvviso, dopo aver pubblicato un articolo che riguardava la presa cinese su Pirelli. Sono state pubblicate diverse ricostruzioni, sulla vicenda, e tutte puntano il dito sui lesi interessi dell’editore, che ha rapporti con il governo cinese e non può permettersi frizioni. Non so dove sia la verità, e non spaccio per verità una cosa che non conosco. Ma certo è uno spaccato interessante e rilevante di come funziona l’informazione italiana, dei retropensieri che attorno a essa si coltivano, della perdurante cointeressenza tra l’interesse degli informati e quelli, non sempre compatibili, degli informatori. Sarebbe bene pensarci, tutti insieme, ogni tanto, e magari anche parlarne.
Nondimeno – anzi: sicuramente di più – sarebbe bene non archiviare troppo in fretta una vicenda che ha occupato i giornali un giorno, prima di inabissarsi prontamente. Parliamo delle violenze – sistematiche, a quanto pare, e organizzate e tollerate – che alcuni agenti della Polizia, a Verona, hanno agito per mesi e mesi ai danni di clochard, migranti, spacciatori, e vari altri “dimenticati” della società. Che fossero colpevoli o meno di qualche reato è molto poco rilevante, mentre è sicuramente rilevante che a usare illegittimamente la violenza fossero alcuni tra i detentori del monopolio statale della violenza, cioè dei membri delle forze dell’ordine. Sconvolge pensare che molti sapessero, che tanti tacessero, che diversi approvassero. Ovviamente fino a prova contraria è un caso isolato. Sempre troppo grosso per non pensare che archiviarlo in fretta, rubricarlo a coincidenza, non interrogarsi per capire se altrove succede qualcosa di simile, è già un tentato omicidio. Non solo ai danni di chi è stato ingiustamente picchiato o costretto ad asciugare la propria urina come fosse uno straccio, ma altrettanto – e perfino di più – ai danni di uno dei meccanismi più delicati e preziosi di quell’ambiente imperfetto, eppure insidpensabile, che chiamiamo democrazia. Ricordiamocene.
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