Un tempo la narrazione di Renzi (via Filippo Sensi) sarebbe finita al cesso

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25 Maggio 2015

Due cose in particolare toccano al comunicatore di un politico importante, mettiamo il  presidente del Consiglio: la gestione delle situazioni delicate e la narrazione quotidiana attraverso i giornali. A questo impegno ognuno può dare il valore che vuole, sapendo bene che quando “porti la parola” di un altro sei per definizione un pericolo per la democrazia giornalistica. Spaccerai banalità per imprese al limite dell’eroico, tenterai d’innalzare la soglia della decenza quando la medesima è finita in un crepaccio, ti immolerai per il capo nel caso in cui il tuo sacrificio possa servire a salvare la verginità della sua figura pubblica (storico il caso di una persona eccezionale come Antonio Ghirelli che s’immolò per il grande Pertini).

In questi ultimi vent’anni, se possibile, la comunicazione ha assunto tratti patologici, dovendosi confrontare innanzitutto con il fenomeno Berlusconi, cui i comunicatori facevano notoriamente un baffo, comprendendoli tutti in un’unica soluzione. Difatti, Tajani, Gawronsky, Bonaiuti te li ricordi persino con tenerezza, ognuno alle prese con quell’io debordante del Cavaliere, al quale era spesso necessario sottrarre più che aggiungere. La tenerezza poi toccava vette scintillanti quando la sottrazione si faceva ingenua quanto inutile, al punto che un giorno, per non dispiacerlo troppo, il buon Antonio Tajani negò al capo la notizia che la sera prima in un comizio l’inarrivabile Umberto Bossi aveva cominciato a chiamare Berlusconi con la geniale storpiatura di “Berluscaz”. La notizia gliela diedero i giornalisti e per Tajani non fu un bel momento.Non che a sinistra le cose fossero poi tanto diverse, pur nella diversità di uomini e situazioni, ma certo la gestione D’Alema si distinse per quel velo di supponenza con cui gli illustratori quotidiani della “Dalemeide” tentavano di imporne il verbo. Aggiungere supponenza alla già gentile predisposizione di Massimo D’Alema per le masse popolari, significava spesso fartelo stare talmente sul cazzo da non esaminare in radice qualsivoglia operazione egli si accingesse a proporre al Paese. Questo per dire che la comunicazione è sì una cosa seria ma paragonabile, più o meno, al sesso degli angeli.

Oggi che siamo al tempo della narrazione renziana, la comunicazione ha assunto i tratti – appunto – di vera e propria sceneggiatura e i racconti a riguardo paiono così immaginifici da sfiorare spesso la favolistica. Poco incline alla comunicazione istituzionale, chi scrive ha sempre pensato che la destinazione finale di ogni velina, per attrattiva che fosse, era il cestino della carta, al punto che i solerti uomini-ombra dei vari potentoni a un certo punto smettevano di chiamarti per sfinimento e semmai quello poteva essere un momento catartico di vera riconciliazione. I motivi per cui si buttava al cesso ogni sollecitazione esterna è così banale che rivelarla ci pare offensiva per il lettore, ma si trattava di merito, di competizione tra colleghi, di cercare le cose migliori per il tuo giornale che in fondo ti pagava anche, e soprattutto nel tempo in cui circolavano “ossi” come Augusto Minzolini, tanto per dire il più bravo di tutti noi (evitate di commentare la sua seconda vita parlamentare, qui ci si ferma alla prima).

È per questo che sto vivendo con una certa stupefazione i racconti che si fanno intorno alla figura di Filippo Sensi, il comunicatore di Renzi, a cui moltissimi attribuirebbero virtù taumaturgiche e che indirizzerebbe (nel senso che si può immaginare) buona parte della stampa italiana. Più colleghi incontrati in tempi diversi hanno confermato l’esistenza di un certo cerimoniale, di certi meccanismi, che per carità non sono affatto di esclusivo appannaggio sensiano, ma che in qualche misura misurerebbero la nostra scarsa opposizione a un sistema vagamente omologato. Non ne avrei forse scritto, ma poi un pezzo superdettagliato apparso sul Fatto ne ha composto il “Racconto dei Racconti” al punto che ogni leggenda si farebbe solida realtà (pur se è doveroso dubitare anche del Fatto). Ma insomma, ne usciremmo a pezzi proprio noi, noi giornalisti, ai quali il Sensi verso il calar delle tenebre indirizzerebbero i suoi amorosi sensi via sms, sotto la voce «Renzi ai suoi». Per chi non coglie subito il significato di questa sigla (quindi la sostanziale generalità delle persone normali), si intenderebbero tutti quei  pensieri privatissimi, vaffa compresi, che il presidente del Consiglio confida ai suoi “strettissimi collaboratori”, quelli che nessuno ma proprio nessuno potrebbe sapere mai se non ci fosse l’estrema disponibilità del delatore Sensi a farcene parte.

Questi pensieri, ci dice il pezzo del Fatto, ma ce lo dicono tanti colleghi, ovviamente li ritrovi in pagina il giorno dopo e per un cronista sono come acqua di fonte soprattutto se nel corso della giornata non ha trovato un’emerita mazza pur scapicollandosi come un pazzo. Il problema è che te li ritrovi così, acriticamente incollati nel pezzo e sono parte della più ampia narrazione renziana. Questo «Renzi ai suoi», tanto per capirci, un certo numero di anni fa sarebbe finito al cesso. E con ciò, non si pretende di scegliere la misura dell’asticella deontologica di un mestiere particolarmente svilito come il nostro, semplicemente si sottolinea il tempo che passa. Meglio o peggio che sia, perchè anche ai tempi di Berlusconi/Prodi/D’Alema le marchette erano all’ordine del giorno, ma decisamente più scoperte e assai meno ispirate da fantomatiche Spectre comunicative.

TAG: filippo sensi, Matteo Renzi
CAT: Partiti e politici

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