Perché D’Alema si lagna di quelle carte invece di esserne orgoglioso?
Basterebbe una norma, una semplicissima norma, come chiede Massimo D’Alema peraltro: i soggetti non indagati non devono comparire nelle carte delle intercettazioni. E la chiuderemmo qui, basta menate con vino, libri e fondazione, basta “sputtanamenti” in lungo e in largo, una semplice norma e avremmo risolto questo garbuglio inestricabile. Ma siamo sicuri che basterebbe davvero e poi sarebbe anche giusto? Se nessuno, ancora, ha pensato a questa norma, qualche motivo ci deve pur essere.
Torniamo a D’Alema. Quello che sta succedendo in queste ore è da psicanalisi. Lasciamo per un momento da parte il protagonista, che è incazzato come un bufalo e ha le sue buone ragioni (ma anche i suoi torti). Prendiamo per esempio la pregiatissima stampa, che immancabilmente risolve le questioni col doppio registro che le è caro, per un verso sul filo di un garantismo burocrate, per cui sostenere che D’Alema non avrebbe dovuto comparire in quelle carte non essendone penalmente interessato, ma dall’altro animatissima (come il Corriere della Sera) a solleticare “quel che resta dell’etica”con un’intera pagina, più editoriale in prima, sull’opacità delle fondazioni, in termini di finanziamento e altro. Anche la Repubblica, peraltro, concorre alla causa titolando maliziosamente “il racconto” di prima pagina, la vetrina del giornale: «Linda, il vigneto e due bulldog». Dove la Linda del racconto è ovviamente la signora D’Alema.
Abbiamo incrociato Gianrico Carofiglio, già magistrato, poi deputato per anni del Pd e scrittore di successo da molto tempo. A precisa domanda, Carofiglio ha risposto con massima serenità: «Chi lo dice che quelle intercettazioni su D’Alema non avevano una valenza che ne giustificasse la pubblicazione?» Già, chi lo dice? Lo dovrebbe dire il giudice, che sceglie cosa mandare in pagina e cosa no. In questo caso, il giudice ha pensato che quei passaggi che riguardavano indirettamente l’ex premier dovessero avere un certo valore, ovviamente non per la sua posizione personale, assolutamente priva di rilievi penali, ma per la comprensione più larga di un fenomeno criminale.
Ci si agita molto in queste ore di post-scandalo da personaggio famoso. Si agita con pienissimo titolo anche il procuratore Nicola Gratteri, al quale toccherebbe la (ri)definizione di un impianto finalmente più civile e rispettoso delle nostre vite private quando devono, appunto, rimanere private. Ieri il procuratore ha fatto sapere che sarebbe in piena elaborazione «una nuova fattispecie di reato: la pubblicazione arbitraria di intercettazioni«. Da una parte si vieterebbe, scrive Repubblica, «l’inserimento del testo integrale delle intercettazioni nei provvedimenti dell’autorità giudiziaria ad eccezione delle sentenze a meno che la riproduzione testuale non sia rilevante a fini di prova». Dall’altra, concludiamo noi, si scaricherebbe il barile sui soliti giornalisti, ai quali toccherebbe il compito di secernere il grano dal loglio.
Nel mondo immaginato dal procuratore Gratteri succederebbe questo, per capirci meglio. Il giudice, nel suo provvedimento, non ci mette praticamente una mazza della montagna di intercettazioni di cui dispone, a meno che “non sia rilevante ai fini della prova”. Ma alle parti, decine e decine di parti, per cui centinaia e centinaia di persone, tra cui i modestissimi cronisti, vomita tutti i faldoni, virgole comprese. A quel punto, se la deve vedere il giornalista, deve esaminare situazione per situazione e decidere, di concerto col suo direttore, cosa sia pubblicabile e cosa no, esattamente il lavoro che dovrebbe fare alla fonte il giudice, il quale, invece, secondo il codice Gratteri così se ne laverebbe le mani. Abbiamo già avuto modo di osservare che questo atteggiamento ha il sapore della doppia morale, ma, soprattutto, non risolve un bel niente. Sempre Carofiglio sull’argomento: «Nei miei anni da giudice riuscivo a limitare molto il gocciolio delle intercettazioni, non proprio una tenuta stagna perfetta, perché quello non è possibile, ma certo il grosso era salvo. Basta averne la volontà, naturalmente, ma qui stiamo parlando di dilettanti allo sbaraglio».
Noi pensiamo che D’Alema, al contrario di quel che pensa, debba inorgoglirsi per quelle pagine giudiziarie in cui è molto citato. Per due motivi fondamentali: il primo è che contribuisce in maniera plastica, da racconto scolastico, a spiegare come certe organizzazioni criminali tentino l’avvicinamento al personaggio politico di rango, ne solletichino magari la vanità, ne immaginino presunte debolezze attraverso regolari contribuzioni alla fondazione di riferimento, sempre nell’idea che ci possa essere un giorno qualcosa di ritorno. E invece di ritorno non ci sarà nulla, e di questo nulla concesso, D’Alema deve andare fiero, ovviamente. Ma essere anche consapevole che quello scenario giudiziario, meglio di ogni altro, restituisce perfettamente la tecnicalità con cui le bande corruttive si muovono e per questo valore meritevole di pubblicazione.
Il secondo, non meno importante motivo è che anche a una persona avveduta come l’ex presidente del Consiglio non può sfuggire la delicatezza dell’argomento, quando si parla dei contributi alla fondazione. Non basta, ovviamente, che siano perfettamente regolari e fatturati. Ci vuole un plus di sensibilità, di accortezza, è necessaria una “disciplina” delle conoscenze, una severità in radice fondamentale per eliminare dal proprio mondo certi personaggi. Una severità, persino una cattiveria, che, come tutti sappiamo, sono perfettamente nella disponibilità del “simpatico” D’Alema.
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