Volete battere Renzi? Attraversate il deserto e tornate a fare politica

18 Aprile 2016

Le polveri e i polveroni di questo piccolo referendum, presto o tardi, si depositeranno. Lo faranno come succede in questi tempi: seguendo, o costruendo, la curva discendente dei meme e degli hashtag. Fino alla prossima fiammata – flame, per gli amanti degli anglotecnicismi -, del prossimo tentativo di spallata, del prossimo appuntamento di verifica intermedia. Gli avversari del leader del pd e capo del Governo Matteo Renzi aspetteranno la prossima conta, le amministrative di giugno e poi il referendum costituzionale: chi, più realisticamente, come tappe intermedie di un percorso di consolidamento del blocco elettorale alternativo in vista delle prossime elezioni; chi, più velleitario, sperando di sferrare il colpo giusto quando meno tutti ce l’aspettiamo, e di regolare i conti col più forte che, come capita al più forte, è anche più arrogante.

Essendo tradizionalista e all’antica, continuo a pensare che l’esistenza di una valida alternativa a chi governa (ovunque, comunque, in qualunque sistema) sia la miglior assicurazione sulla vita e sulla salute di una società. Non solo dal punto di vista dei fondamenti democratici ma anche al fine di vedere realizzate e applicate politiche di sostanza, qualità e prospettiva. Solo attraverso una dialettica davvero competitiva e la capacità di fornire alternative credibili, infatti, i diversi interessi rappresentati, i diversi pezzi di società, possono trovare compimento e piena rappresentazione nell’agone politico e nella competizione elettorale.

Fin qui la teoria, tanto lineare da sembrare banale, non fossimo a valle di decenni in cui anche le cose ovvie, di buon senso sono state spazzate via. E tuttavia, anche se siamo disabituati a comprenderlo, la necessità di due competitori seri, preparati e rappresentativi resta ferma, resta lo scenario ottimale, almeno fino a quando non supereremo la democrazia rappresentativa per trovare qualcosa di meglio (e speriamo di non esserci, quando succederà).

Se questo è il quadro in cui necessariamente ci muoviamo, allora forse è opportuno che chi si vuole candidare a costituire una solida opposizione che diventi l’embrione di una vera alternativa alla leadership renziana si dedichi seriamente a un’autocritica costruttiva, e guardi in avanti con tutte le categorie di analisi necessarie. Anzitutto, considerando che la leadership di Renzi è effettivamente la leadership “carismatica” di un partito leggero, che a tratti sembra diventato gassoso, ma senza dimenticare che anche questo elemento di debolezza strutturale è in perfetta sintonia con il tempo che viviamo. Un rapporto profondo con una pancia impolitica del paese, sommato al voto “anziano” della maggioranza degli storici elettori del Pd, sono stati finora la chiave dell’unico vero successo elettorale pieno, cioè le europee del 2014. Questo combinato di fattori ha peraltro costituito la base del consenso renziano anche all’interno del partito, portando un numero importante di parlamentari e dirigenti, giovani e meno giovani, provenienti da storie eterogenee e spesso non particolarmente abituati a prendersi i voti, a convergere ora con il senso di opportunità del politicante, ora con l’entusiasmo un po’ fanatico del neofita, sul segretario e presidente. Questi elementi non sono la garanzia di un’egemonia duratura, ma neanche dati che si possano derubricare a elementi marginali di una forza politica. Sono, comunque, fatti solidi, che svettano in uno scenario in cui le alternative, ipoteticamente candidate alla guida del paese, non brillano né sul versante del polso dell’opinione pubblica, né su quello, se possibile perfino più complesso, della strutturazione politica dentro a un partito e alle sue ramificazioni.

Al momento, anzi, il vero elemento motivante dell’azione di minoranze e opposizione sembra essere effettivamente l’antirenzismo. O meglio: è questo, in definitiva, l’unico elemento che emerge e che si riesce a comunicare. Che esso sia fondato su un senso alto delle istituzioni incompatibile con la presa di potere personalistica del leader toscano, o su un più basso appetito di chi si vede spossato del piatto che avrebbe voluto suo con non maggiore stile, cambia paradossalmente poco, almeno nella percezione diffusa che arriva al cittadino, lontano dai palazzi e dai retroscena. Al nostro cittadino arriva netta, invece,  la sensazione che il blocco che non vuole Renzi non lo vuole perché ce l’ha con lui e proprio su questa inimicizia – il più possibile derubricata a antipatia e invidia, nello storytelling renziano – il capo fa leva per cementare il suo consenso. Una storia già vista, potrà dire qualcuno, e se non è vero che la storia si ripete sempre, è però vero che sempre ha qualcosa da insegnarci.

Questa nostra storia che abbiamo appena dietro alle spalle, in fondo, ci dice una cosa semplice: per vincere, in politica, serve un rapporto vero con il paese. O meglio: serve un rapporto più vero e più profondo con i suoi bisogni rispetto a quello dei propri avversari. Per incidere davvero sui processi politici, serve poter dire, concretamente, che si rappresentano meriti e bisogni. Che ci sono minoranze attive significative che si riconoscono in una storia, o che ci sono maggioranze silenziose che vengono correttamente interpretate. È la storia dei grandi partiti italiani, ma anche di alcuni piccoli esempi di testimonianza davvero incisiva. E ancora, è la storia di tutte le democrazie occidentali, e di esempi significativi che si vanno incarnando in questi anni, dal Labour di Corbyn alla folle e comunque bellissima avventura di Bernie Sanders, a Podemos e per arrivare anche a David Cameron o Angela Merkel. Senza aver fatto politica a lungo nelle istituzioni e nella società, senza aver intercettato faticosamente i bisogni rielaborandoli, senza aver fatto compromessi con la realtà, alla fine, si perde. Oppure, senza aver raccolto prima i bisogni attorno a sé, senza aver studiato a dovere le debolezze degli altri, non si scalzano i poteri costituiti nè le gerarchie, per quanto esauste, all’interno dei propri partiti.

Diversamente, senza fare questo percorso, senza attraversare questo deserto, si vede il proprio avversario/nemico cadere, si pensa che sia finito, e la volta dopo, quando ci si conta, ci si accorge che finito non era proprio. Nei vent’anni che vanno dal 1994 al 2013 questa dinamica, proprio quest’ultima dinamica, l’abbiamo vista in scena diverse volte. Non stupirebbe se si verificasse anche nel prossimo futuro, e che magari Renzi, nel prossimo futuro, perdesse qualche battaglia parsa cruciale, prima, e poi tornasse in mezzo alla scena più forte di prima. Al di là di cosa ciascuno di noi si augura e auspica, fuori dalle curve del tifo, sarebbe bene per il paese che chi vuole governarlo, e non lo sta facendo adesso, si attrezzasse a un lavoro di pazienza e fatica, che parla con le città e i luoghi di lavoro, le scuole e le fatiche di un popolo. Ignorando per un po’ i sondaggi e l’ultimo tweet. Ci vuole pazienza, ci vuole lavoro: è così che funzionano la vita e la democrazia. Per quest’ultima, poi, serve anche un terzo ingrediente, indispensabile al menù, e si chiama consenso. Buon appetito a tutti.

(foto di copertina tratta da Flickr, Università Ca’ Foscari, Venezia, free commons)

 

TAG: Matteo Renzi
CAT: Partiti e politici

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