L’ennesima storia in cui i torti si restituiscono in fretta, e le ragioni invece sono in cerca di autore.
Oggi che i taxi hanno ripreso a circolare – per la soddisfazione di quel 2% di popolazione che ne è fruitore abituale, con un’importante quota di politici e giornalisti tra questi – è forse necessario segnare qualche punto fermo. Riguarda il nostro passato, ben più lungo di ieri e dell’altro ieri, e il nostro futuro che purtroppo non arriverà domani.
I taxisti italiani sono una categoria che per lungo tempo è stata protetta dalla concorrenza, e per molte ragioni “esentata” da controlli e legge. La politica a vari livelli ha accettato, molti anni fa, la nascita di un mercato delle licenze che a monte erano state concesse a titolo gratuito. Alcuni, pochi, ottenevano e ottengono le licenze per “concorso” gratuito dai comuni e poi, però, possono cederle a titolo oneroso ad altri che vogliono subentrare. Aver consentito questo meccanismo, autorizzando la cessione tra privati, è stato uno dei peccati originali diventati insanabili perché oggi i tantissimi taxisti che hanno la licenza avendola strapagata (magari anche 200 mila euro) non possono accettare di vederla svalutata. Sia detto per inciso: sono cose che capitano nel mare aperto del mercato, per informazioni citofonare a chi ha comprato una casa ai massimo di mercato nel 2005 e ha dovuto o voluto rivenderla nel 2015. Ma andiamo oltre.
A rendere evidente l’insostenibilità del meccanismo è stato l’arrivo sullo stesso mercato di nuovi attori dotati, nativamente, di tecnologia, di buone idee imprenditoriali e di capitali. Il mix perfetto di quello che, nella storia, ha costruito sempre una base solida per i cambiamenti radicali di paradigma. L’aumentare di una concorrenza sostanzialmente non regolamentata, in una prima fase, e comunque difficilmente comprimibile, in prospettiva, ha esacerbato gli animi di una categoria che aveva considerato l’investimento iniziale, necessario per la licenza, come un capitale a reddito sicuro, di fatto una rendita garantita da un lavoro sostanzialmente privo di valore aggiunto. Una riflessione più attenta avrebbe aiutato a capire che Uber e i servizi di ncc sono solo una parte dell’erosione di quella rendita. Molto ha fatto la crisi, con conseguente compressione della capacità di spesa di fruitori abituali e di aziende. Sicuramente anche ha contribuito il diffondersi (virtuoso) del Car sharing e – dove funzionano, come a Milano – di nuove reti di servizi pubblici. Ma certo, un punto era e resta vero: aver consentito la nascita di un mercato delle rendite, aver sempre accettato di mantenerlo nel tempo, ovviamente ingrossandolo, in cambio di una rendita di tipo elettorale, è una colpa grave e riguarda la politica italiana, quella romana in particolare, ben più grave di quella di aver protetto il mercato con un numero di licenze che in realtà, almeno parzialmente e più per Milano che per Roma, è allineato con quello di altre città europee. Aver accarezzato l’idea di affidare a un gigante senza volto e con un’idea dei diritti ancora tutta da capire, come Uber, la possibile soluzione di un problema è poi una scorciatoia che non regge, proprio perché la grana non sarebbe nata e cresciuta senza le colpe delle pubbliche amministrazioni, e del legislatore.
È dunque chiaro che, per uscire da un vicolo cieco, la politica nazionale e quella locale, di qualunque colore, dovrebbe da un lato riconoscere gli errori di propria competenza e predisporsi a una soluzione che non può che passare da un negoziato serio; e dall’altro, proprio con questo obiettivo, dovrebbe mostrarsi inflessibile nei confronti di proteste inaccettabili nella forma, come lo è sempre l’apologia del fascismo o, peggio, la violenza fisica e materiale. Questi ingredienti, purtroppo, non li abbiamo visti nella cucina di Virginia Raggi, ma neanche in quella di Graziano Delrio e del governo nazionale. Speriamo che il prossimo menù li contempli, come serve contemplare la complessità in questi tempi complicati. È difficile, quanto indispensabile.
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[Questi ingredienti, purtroppo, non li abbiamo visti nella cucina di Virginia Raggi] Jacopo Tondelli, aveva scritto un articolo ben articolato poi ci ha messo in mezzo la Raggi e si è giocato il settebello! Ma siete proprio ossessionati!! Una domanda ” MA CHE CACCHIO C’AZZECCA LA RAGGI CON QUESTA VICENDA?” Grazie e cordiali saluti.
Caro Jacopo,
ovviamente d’accordo sulla condanna delle violenze e dell’apologia di fascismo (quest’ultima probabilmente non attribuibile ai tassisti ma a gruppi organizzati che sempre si infiltrano in queste agitazioni, specie a Roma).
Però tutta questa idolatria del mercato proprio non la capisco. Deve esistere un servizio pubblico di piazza o no ? Se non deve esistere, aboliamolo. Io non sarei d’accordo, ma avrebbe una logica. Invece se deve esistere, smettiamola di invocare la concorrenza a sproposito. Tra uno che deve avere la licenza ed uno che non ce l’ha, tra uno che deve rispettare i turni ed uno che non li rispetta, tra uno che deve applicare una tariffa fissata dall’autorità amministrativa ed uno che fa il prezzo che gli pare … che concorrenza è ? Libera volpe in libero pollaio. Parliamo piuttosto di innovazioni. Imponiamo ai tassisti lo scontrino fiscale e l’accettazione di carte di credito e bancomat. Incentiviamoli a usare le app e a conoscere le lingue straniere. Permettiamo formule tariffarie più articolate di oggi (abbonamenti, scontistica …). Ma l’ipocrisia di lasciare il servizio pubblico e poi permetterne la distruzione attraverso la concorrenza sleale e l’abusivismo è una porcata che dovrebbe indurre tutte le persone di buon senso, non solo la Raggi, a manifestare solidarietà ai tassisti.