Un altro storytelling: come prendere il potere senza dare troppo nell’occhio

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5 Febbraio 2015

In un Paese in cui il disprezzo per il potere supera quello che di solito si rivolge allo sfruttamento della prostituzione, al gioco d’azzardo e agli incaprettamenti mafiosi, puntare proprio al potere, all’esercizio del potere, essendo ossessionati dalla sete di potere, e avendo come meta finale il potere deve essere un bel rebus. L’uomo, quel matto che aspira a governare un Paese sbrindellato come l’Italia (dove, come si sa, governare gli italiani non è impossibile ma inutile) è come tutti gli uomini dalle idee fisse uno che si alza la mattina e pensa “voglio il potere”, prende un caffè e viene assalito da una scossa di desiderio “voglio il potere”, svolta l’angolo e il pensiero ritorna sirenusico e ossessivo  “voglio il potere”.

Come fare perciò in un Paese dove Caterina Caselli cantava già negli anni ’60: “Il denaro ed il potere son due trappole mortali che per tanto e tanto tempo han funzionato. Ma noi non cadremo…”. Ma sì, bisognerà fare come quelli degli anni ’60, proprio: cantare tutto l’opposto di ciò che si vuole fare. Dare la scalata al potere (anche discografico) con l’aria dei figli dei fiori, peace and love, mentre ci si siederà nei consigli di amministrazione. O quanto meno non dare troppo nell’occhio. I democristiani,  avevano raggiunto vette di “dissimulazione onesta” (e anche disonesta a onor del vero), sopraffina, quintessenziale. Alcuni di loro erano, tra l’altro, omosessuali e non potevano dirlo come non potevano dire che puntavano direttamente al potere, sì all’orgia del potere, che una volta raggiunto consentiva, nell’ombra, di dare sfogo alle proprie pulsioni: trionfalmente. Ed ecco allora che inventavano queste formulette del “servizio”, il potere come “servizio” della collettività, i politici al “servizio” della Nazione. Con  quell’aria unta di retorica, quelle mani che sapevano di saponetta e quegli sguardi pii che avevano visto molte sagrestie e frequentato altrettanti Monsignori, dovevano, dopotutto, abbassare lo sguardo castamente davanti al vero oggetto del desiderio, “il potere”,  come davanti al Santissimo.  Ma puntare sempre a  esso, con volontà di potenza e con tutti i mezzi: le tessere false ai congressi, i pacchi di voto clientelare alle elezioni, le contiguità con il potere mafioso, quello che ammazzava nella luce come nell’ombra, le transazioni e le esenzioni fiscali con le masse contadine e con gli industriali una volta giunti al potere.  “Ragassuoli, funziona così”, dice in questi giorni la commercialista bolognese indagata per i suoi traffici illeciti con la ‘Ndrangheta. Essì: ragassuoli, funziona così!

Ora, c’è un pensatore politico italiano che questo “funziona così” del potere politico lo aveva spiegato più al colto che all’inclita. Si chiamava Gaetano Mosca, un professore palermitano che reinventò praticamente la “scienza” della politica. Insegnò a Torino per una dozzina d’anni e qui ebbe come allievo quell’autentico genietto che era Piero Gobetti, il quale lo indicò  sempre con  deferenza come un “galantuomo conservatore” (Norberto Bobbio, “Profilo ideologico del Novecento italiano”). La lezione di Mosca lasciò traccia in area piemontese, e in un’epoca in cui, a sinistra, pronunciare i nomi di Mosca, come quelli di Pareto o di Michels, era una bestemmia, fu Bobbio a preoccuparsi, e proprio negli “anni Sessantotto”,  di rimettere in circolazione il pensiero di Mosca. In verità se n’erano accorti prima all’estero. Il neocon ed ex trotzkista americano James Burnham  (l’autore de “La rivoluzione manageriale”) aveva dedicato ai tre scienziati della politica italiani Michels, Mosca e Pareto, il famoso studio “The Machiavelians. Defenders of Freedom” (1943). “Machiavellians”, perché proprio sulla scia dell’altro italiano fondatore della politica, Machiavelli, il quale “gli allor ne sfronda” (del potere, gli toglie gli orpelli insomma) e mostra “di che lacrime gronda e di che sangue”, così costoro ce lo mostrarono, il potere, nella sua “realtà effettuale”, nella sua brutalità, tel quel.

Due pensieri-chiave (tra i tanti)  ebbe Gaetano Mosca. Quello della “classe politica” e quello della “formula politica”. Ai teorici della disintermediazione (quel processo che tende a eliminare i mediatori, partiti o sindacati che siano), agli esteti del movimentismo (quelli che dicono noi “non siamo un partito ma un movimento, un club”) va il primo pensiero di Gaetano Mosca: “ Cento che agiscono sempre di concerto e d’intesa gli uni con gli altri trionferanno sempre su mille presi uno a uno che non avranno alcun accordo tra loro”. Mosca, teorico della cosiddetta “classe politica”  voleva dire con queste  parole che una “minoranza organizzata”, la classe politica appunto,  avrà sempre partita vinta sulle masse indistinte e “movimentiste” disorganizzate. E’ stato così fin dai tempi dei faraoni e in altri ambiti, del cristianesimo (partirono in 12) o del partito leninista (ancora meno) o, dio mi perdoni ma il meccanismo formale è identico, della delinquenza organizzata, che prima di essere delinquenza è proprio una minoranza organizzata.  E’ l’idea della minorité consciente che attraversò tutto l’Ottocento a partire dall’esperienza giacobina: un gruppo di persone organizzate che si fanno partito (setta carbonara prima) e che funziona da lievito per le masse. Questa “minoranza cosciente” aspira al potere, ovviamente, non alla testimonianza. Sia i barbudos di Castro che i sandinisti di Daniel Ortega come quelli di “Sendero luminoso” (cui non è andata così bene), da questa formuletta partivano per giungere al trono laccato in oro del Potere caraibico. E, se possibile, non lasciarlo più.

Altro pensiero  politico di Gaetano Mosca era quello della  cosiddetta “formula politica”. Che cosa intendeva dire Mosca con questa “formula”?  In soldoni, e gli studiosi della scienza della politica mi perdoneranno, Mosca diceva:  «Guardate che chi prende il potere non ti dirà mai “Prendo il potere perché sono ambizioso, perché poi avrò un sacco di amanti, perché uscirò dall’anonimato, perché comandare è meglio che fottere”». Insomma i politici non confesseranno coram populo, ma neanche a se stessi a dire il vero, che  è per una la loro sporchissima e indegnissima pulsione personale che puntano al potere. No, diceva Gaetano Mosca, chi vuole prendere o ha già preso il potere inventerà una “formula politica”, spesso falsa o non corrispondente al vero,  ossia una teoria per  coprire  le proprie pulsioni, e dirà se è un teocrate: “Il mio potere viene da Dio” o “Dio lo vuole”. Se è un democratico o un populista: “E’ il popolo che lo vuole”, e se è un folle dittatore  dirà che il suo potere lo vuole sia il popolo che Dio. In poche parole le finalità dei politici sono nascoste,  subdole o inconsce come quelle degli amanti o degli uomini di affari o dei militari. I seduttori diranno che amano gli stessi film e gli stessi tramonti dell’amata mentre in verità puntano ai suoi scrigni segreti; gli uomini d’affari inventeranno le più favolose opportunità  e vantaggi del compratore e i generali nasconderanno le proprie intenzioni e crudeltà dietro una fitta coltre di dissimulazioni disoneste. Ognuno inventa le sue formulette, le sue storielle o il suo personalissimo storytelling, ancor prima di assoldare bravissimi suggeritori che ti possano insufflare nelle orecchie quelle frasi belle e armoniose tratte dai libri che il caro leader non ha avuto e non avrà mai il tempo di leggere.

Gli uomini, ammoniva Pareto, sono essere irrazionali ma ragionevoli, agiscono per istinto e giustificano con ragione. Raccontano storielle per nascondere le proprie pulsioni. E’ disdicevole tutto ciò? E beh, bello non è, detto così su due piedi. E se anche così fosse? Non è così brutale se lo si guarda da vicino. L’uomo è anche un animale simbolico, mischia idealità e impulsi, pensieri nobili e disegni sordidi. Neanche egli stesso sa con esattezza qual è la molla che lo muove: forse genericamente una affermazione di sé retta da narcisismo e autostima. Un misto di sordidezze e di pensieri puri, più probabilmente.

E infine, ci sono più cose in cielo e in terra che nella nostra filosofia o nelle nostre più arzigogolate teorie.  Il prete non predica anche perché punto dall’amor di Dio oltre che dal narcisismo? E gli innamorati: solo dalle pulsioni sono mossi (come credeva quel pessimista secco di Schopenhauer) e non anche da sentimenti di dedizione e di trasporto cristallini? E i  militari sono solo carte di tiro e astratte geometrie? Non avete letto mai una pagina di Tolstoj su Kutuzov allora. E il politico?  solo alle proprie pulsioni mira e non anche a realizzare obiettivi in direzione degli interessi collettivi e sapendo cogliere con tempismo quella che Bismark diceva essere l’essenza stessa della politica: “Afferrare al volo il mantello fuggitivo della storia”?

TAG: politica
CAT: Partiti e politici, Uncategorized

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