Enti locali
Sindaci di nessuno: perché i piccoli comuni sono un lusso che l’Italia non può più permettersi
Ogni giorno si leggono notizie sulla chiusura delle scuole nei piccoli comuni italiani. È un tema che accende i riflettori su un problema ben più ampio: la crisi demografica e la sopravvivenza amministrativa di micro-realtà che non hanno più senso. I sindaci si oppongono, gridano allo scandalo, ma troppo spesso cercano di difendere l’indifendibile: strutture vuote, bilanci esangui, servizi minimi, ma con apparati amministrativi del tutto sproporzionati rispetto alla popolazione residente.
La realtà è chiara a tutti: l’Italia si svuota, e i paesi più piccoli sono i primi a subire questo lento, inesorabile declino. Le scuole chiudono perché mancano i bambini. Le case restano vuote perché i giovani se ne vanno. Gli esercizi commerciali spariscono, uno dopo l’altro. In questo contesto, continuare a mantenere giunte comunali, consigli e sindaci in comuni da 80, 100 o 300 abitanti è un’anomalia insostenibile, un peso per il sistema Paese e un freno a qualunque seria riforma amministrativa.
Esistono comuni che non arrivano a 100 abitanti. In provincia di Lodi, uno ne conta 80. In provincia di Como, ce n’è uno con appena 41 residenti. Eppure hanno un sindaco, degli assessori, un consiglio comunale. Ma ha senso amministrare politicamente una comunità più piccola di un condominio urbano? Non è forse il caso di dire basta a questa finzione democratica, che non produce alcun beneficio concreto per i cittadini?
Chiariamo subito un punto: nessuno propone di chiudere gli uffici comunali. Nessuno vuole togliere servizi essenziali ai cittadini delle aree interne o montane. Anzi, in molti casi quei servizi devono essere rafforzati e garantiti con più efficienza. Ma è inutile e dannoso continuare a sostenere una struttura politica completa per comuni che potrebbero – e dovrebbero – essere accorpati.
Una proposta ragionevole sarebbe quella di stabilire una soglia minima di 6.000 abitanti per il riconoscimento di un comune in quanto entità politica autonoma. Sotto questa soglia, i municipi esisterebbero ancora come articolazioni amministrative, con sportelli, uffici, personale. Ma niente più sindaci, giunte o consigli comunali eletti.
Si tratterebbe di una riforma di buon senso, già adottata in altri Paesi europei con ottimi risultati. In Francia e Germania esistono forme di accorpamento e gestione consortile dei piccoli centri, con una riduzione drastica dei costi e un miglioramento netto nella qualità dei servizi. In Italia, invece, la frammentazione amministrativa è patologica: oltre 7.900 comuni, di cui più della metà con meno di 5.000 abitanti.
Il motivo per cui una riforma simile non viene mai presa sul serio è semplice e scoraggiante: la politica non vuole perdere posti di potere. I partiti – o meglio, quelli che oggi si presentano come tali ma sono solo comitati elettorali permanenti – hanno bisogno dei piccoli comuni per “contarsi”. Le elezioni nei micro-comuni servono a piazzare fedelissimi, a garantire pacchetti di voti, a coltivare clientele. Un comune con 300 abitanti può significare un sindaco, un vice, due assessori, cinque consiglieri. Dieci incarichi politici per un villaggio. Il tutto con rimborsi, gettoni di presenza e possibilità di entrare nei consigli provinciali. Un moltiplicatore di poltrone, a basso costo per i partiti, ma ad altissimo costo per l’efficienza della macchina pubblica.
Il paradosso è che questi stessi sindaci – spesso legati ai territori e animati da buona volontà – si trovano a gestire realtà senza alcun margine di azione. I fondi sono pochi, i vincoli tantissimi, le competenze limitate. Gli atti amministrativi vengono scritti da dipendenti intercomunali, condivisi tra più enti. In molti casi i bilanci si fanno fotocopiare. Non è politica, è burocrazia che finge di essere governo locale.
I dipendenti di questi enti sono invece fondamentali. Sono loro che mantengono aperti i municipi, che gestiscono i servizi anagrafici, l’illuminazione pubblica, la raccolta rifiuti, le pratiche edilizie. Ma tutta la parte elettiva – sindaci, giunte, consigli – è oggi una sovrastruttura che non migliora i servizi. Anzi, spesso li complica.
Accorpare i comuni in entità minime di 6.000 abitanti significherebbe razionalizzare, ridurre sprechi, rafforzare la capacità di pianificazione. I comuni più piccoli potrebbero diventare frazioni, municipi, con consigli consultivi o referenti locali, ma senza autonomia politica completa. Eppure, ogni proposta in tal senso viene ignorata, ostacolata o ridicolizzata.
E allora la domanda è: chi ha il coraggio di toccare questi interessi? Nessun partito. Nessun governo. Perché in gioco non c’è solo l’architettura istituzionale, ma un sistema di potere diffuso e capillare, fatto di micro-consensi, mini-carriere, piccoli feudi. Per i partiti, anche il comune più piccolo è una casella da riempire, un punto in più nelle trattative regionali o nazionali. La popolazione, invece, conta poco. Conta meno del numero di delegati al congresso del partito.
Eppure, una riforma del genere è inevitabile. Forse non oggi, forse non domani. Ma arriverà. Per necessità, per ragionevolezza, per sostenibilità. Quando il sistema non reggerà più, quando i conti non torneranno, quando l’Europa ci chiederà riforme serie, allora ci si ricorderà che avere un sindaco per ogni campanile non è democrazia. È un privilegio arcaico. Un lusso che non ci possiamo più permettere
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