Un'immagine di repertorio del Tribunale di Pavia. Nelle prossime settimane sono attesi sviluppi sulle nuove indagini sull'omicidio di Chiara Poggi, risalente al 2007.

Giustizia

La lezione di Garlasco: “oltre ogni ragionevole dubbio” vale per Stasi, per Sempio, e per tutti, sempre

26 Maggio 2025

Quello di Garlasco non è solo un caso di cronaca giudiziaria che ritorna al centro della scena, a seguito di sviluppi processuali che sarebbero sembrati inimmaginabili pochi anni fa. Non è nemmeno, solamente, una prurigine collettiva latente che trova espressione retroattiva per una vicenda maturata in un tempo, remoto ma non troppo, nel quale la parola femminicidio non era nemmeno mai stata pronunciata nè concepita. Non è neppure l’onda alta di comprensibili perplessità per indagini e inchieste, evidentemente, condotte con pressapochismo e in ambienti “non sterili” per troppo tempo. E non è neanche principalmente un interrogatorio posto senza troppi riguardi a un imputato che si merita sempre una qualche condanna esemplare, cioè il sistema giornalistico e mediatico. È tutto questo, ma è soprattutto un’enorme questione posta al cuore dello stato di diritto e del tessuto della democrazia, della quale siamo parte e sostentamento tutti noi. Proviamo a capire perchè.

Chi abbia ucciso Chiara Poggi, quasi 18 anni fa, in quel puntino di bassa padana dimenticato da Dio che è Garlasco, a questo punto nessuno davvero lo sa: tranne, ovviamente, il colpevole, o i colpevoli. C’è, lo sappiamo tutti, un condannato con sentenza definitiva, si chiama Alberto Stasi, che si proclama da sempre innocente e che due volte è stato assolto, prima di venire condannato definitivamente in Cassazione, ormai quasi dieci anni fa. Gli avvocati della famiglia della vittima invitano a guardare lì, a quel nome scolpito vicino alla sentenza di condanna per omicidio volontario, in ossequio al lavoro dei giudici, e azzardano che quella fiducia nella sentenza sia un tributo dovuto alla Costituzione. Quella Costituzione che chiede di presumere tutti innocenti fino a una sentenza definitiva di condanna, da pronunciare secondo il Codice di Procedura Penale “oltre ogni ragionevole dubbio”.

E dunque, Stasi è colpevole a seguito di una sentenza passata in giudicato, e tutti gli altri innocenti non – come si dice in gergo – fino a prova contraria, ma fino a sentenza definitiva, che può arrivare solo avendo superato “ogni ragionevole dubbio”. Una sentenza potenzialmente diversa da quella che abbiamo è di là da venire, dato lo stato del nuovo procedimento penale e considerando anche i tempi della giustizia, e fatte salve naturalmente svolte improvvise, improbabili ma per definizione non impossibili. C’è una verità dunque proclamata in giudizio, e però è così forte che è la stessa magistratura italiana competente secondo la Costituzione a dubitarne tanto da riaprire l’indagine, dopo aver negato più volte la revisione ai legali del condannato.

In attesa che la giustizia (ri)faccia il suo corso, lento e sinuoso come quello di un fiume in ritardo rispetto al mare che lo attende, vale la pena di mettere a fuoco le questioni tutte politiche che, proprio grazie a questa incertezza, a questa incredibile attesa, sono però più chiare e attuali che mai. Le esprime bene un giudice, uno dei primi che ebbe a guardare il caso nello svolgimento delle proprie funzioni, e mandò Stasi assolto. Stefano Vitelli, nel 2009 Giudice delle indagini preliminare a Vigevano, commentando oggi i fatti e le decisioni di allora, dice qualcosa di interessante, faticoso, doloroso, e totalmente vero, se riguardiamo i principi della democrazia costituzionale: senza la certezza di una colpevolezza, essere forti e cosciente obbliga ad assolvere. Per questo, si intende, lui assolse Stasi: non perchè certo dell’innocenza dell’imputato, ma perchè non sicuro, sulla base delle evidenze raccolte e discusse, della sua colpevolezza. Questo è un discrimine delicato e decisivo: per assolvere basta un dubbio, per condannare serve la certezza.

A questo punto del ragionamento, per capirci, serve un’ulteriore specifica. È normale, è giusto, è davvero umano sentirsi dalla parte della vittima e di chi la piange. E tuttavia, la qualità di una democrazia fondata sullo Stato di diritto si misura principalmente non per come sa dare una consolazione qualsiasi alla memoria delle vittime e ai loro cari, ma per come sa garantire gli imputati, prima e dopo che siano giudicati colpevoli. Per farla più semplice: non dobbiamo pensarci Chiara Poggi, o suoi cari che la piangono, dobbiamo pensarci imputati alla sbarra per il suo omicidio. Immaginare che potremmo essere innocenti e trovarci condannati ingiustamente. O che in quella posizione scomoda, orribile – quella dell’imputato che tutti vogliono vedere in galera per avere il nome di un colpevole senza troppo curarsi dei ragionevoli dubbi – potrebbe trovarsi qualcuno al quale vogliamo bene. E sulla cui innocenza siamo pronti a giurare. È difficile, ovviamente, sembra sovrumano: ma è in realtà la cosa più umana del mondo.

È in questo quadro, un quadro perfino più ampio e risalente dei diciotto anni che ci separano dall’agosto del 2007 nel quale Chiara Poggi fu uccisa, che va messa dunque questa vicenda. Dentro a quest orizzonte stanno il giornalismo e l’opinione pubblica di oggi, che segueono rotte diverse rispetto al momento nei quali il delitto fu commesso. Pensiamo ai social network, a Facebook che era ancora tecnicamente un start-up, seppure di successo, e oggi ha l’età di Noè. Pensiamo a quanta acqua sotto i ponti della tecnologia e delle tecniche investigative può essere passata. Capiremo se sono cambiamenti decisivi nei prossimi giorni, nelle prossime settimane, perfino nei prossimi anni. E nello stesso tempo più o meno lungo comprenderemo, eventualmente, il fallimento o meno di un sistema giudiziario, magari gli errori, o magari no. La cosa più difficile da tenere a mente e nel cuore sarò sempre la stessa, la più importante: nessuno può essere condannato, se non viene superato ogni ragionevole dubbio. Valeva per Stasi, e vale ancora. Vale Per Sempio, e per chiunque altro. Fino all’estrema conseguenza, quella che porta ad ammettere che non si può dire con certezza chi abbia ucciso una ragazza a casa sua, nel mezzo di un’estate. Un assassino vivrà per sempre libero, ma nessun innocente – almeno – finirà in galera al suo posto.

Commenti

Devi fare login per commentare

Accedi

Gli Stati Generali è un progetto di giornalismo partecipativo

Vuoi collaborare ?

Newsletter

Ti sei registrato con successo alla newsletter de Gli Stati Generali, controlla la tua mail per completare la registrazione.