Giustizia
Il Paese dei processi infiniti
Famiglie in sospeso, aziende bloccate, innocenti che pagano per anni. Il garantismo non è una bandiera. È una forma di rispetto per l’umano.
Ci sono processi che durano dieci anni. E vite che nel frattempo si consumano. C’è chi aspetta, spera, resiste. E poi cede. Per stanchezza, per povertà, per solitudine. Ci sono famiglie sospese. Aziende bloccate. Uomini e donne che vivono dentro un tempo immobile. La giustizia italiana, troppo spesso, è un’attesa che non finisce mai.
C’è chi muore senza sentenza. C’è chi viene assolto troppo tardi. C’è chi vive nell’incubo di un errore giudiziario. Ma tutto resta normale. Si parla di riforme, si promettono snellimenti, si creano commissioni. Intanto le persone restano schiacciate da un meccanismo lento, opaco, sproporzionato.
Il diritto non è più una garanzia. È diventato una variabile. Se hai risorse, se hai tempo, se hai forza, puoi resistere. Altrimenti sei fuori. Non importa se hai ragione. Conta se reggi. E in questo sistema, chi è più fragile perde. Sempre.
Essere garantisti, oggi, non è una posizione politica. È una postura umana. Vuol dire credere che nessuno debba essere trattato come colpevole prima del tempo. Vuol dire difendere la presunzione d’innocenza, non per ideologia, ma per giustizia. Perché quando un uomo viene esposto mediaticamente, isolato socialmente, azzerato economicamente, prima ancora che un giudice parli, non è più una persona. È una sagoma in pasto al dibattito.
Viviamo in un tempo in cui il sospetto vale più del processo. In cui la gogna si consuma in poche ore e l’assoluzione arriva – se arriva – quando tutto è già stato distrutto. I processi mediatici sono più rapidi di quelli ordinari. Ma non restituiscono nulla. Non curano. Non riparano. Lasciano solo macerie.
Nel frattempo, chi lavora, chi produce, chi costruisce, attende. In silenzio. Le imprese non si raccontano, non si lamentano, non fanno rumore. Ma pagano ogni giorno il costo dell’incertezza. Ogni causa pendente è un freno. Ogni ritardo è una ferita. In un sistema in cui la velocità è tutto, la lentezza della giustizia diventa una condanna.
La giustizia non è solo una questione di norme. È una questione di fiducia. Di tempo. Di sguardo. Quando perdi la giustizia, perdi il patto. Perdi l’idea stessa di comunità. Non ci credi più. Non ti fidi più. Ti difendi. Ti chiudi. Ti arrangi. È così che si spacca un Paese.
E in questa spaccatura quotidiana, la giustizia resta una chimera. Non basta digitalizzarla. Non basta proclamarla. Serve metterci mani, tempo, coraggio. Serve rimettere al centro le persone, non i codici. Serve togliere i privilegi a chi si protegge dietro i ruoli. E dare dignità a chi aspetta risposte da anni.
Serve una rivoluzione del senso. Non solo dei codici. Serve dire che non è normale aspettare anni per sapere se sei innocente. Serve dire che non è giusto vedere famiglie fallire per una causa persa nel labirinto della burocrazia. Serve dire che la giustizia non può più essere solo una promessa.
Perché dove il diritto si inceppa, la democrazia si sfilaccia. E un Paese che non crede più nella giustizia, non può credere più nemmeno in sé stesso.
La giustizia non si misura in giorni. Ma nel modo in cui guarda il volto di chi attende. Ed è da lì che dobbiamo ricominciare.
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