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Governo

Ancora intellettuali e politica. Ma qualcosa c’è da dire

di Chiara Moroni
2 Maggio 2016

Ancora ci si chiede quale possa essere il ruolo degli intellettuali nella sfera della politica. Soprattutto nell’area di centrodestra, nell’ambito della quale tale rapporto non è mai stato chiaro e condiviso. Un’area politica in estrema difficoltà sia programmatica sia di consenso.
L’esperienza fallimentare del Pdl insegna come non sia sufficiente costruire un grande contenitore nel quale far confluire identità e storie tanto diverse, con obiettivi politici non di rado antagonisti; è necessario condividere un modello politico-culturale che pur rispettando le diversità – che sempre costituiscono una ricchezza – rappresenti la modernità nella conservazione, la voce anche di opinioni laiche e liberali, la lettura democratica e aperta di una società caratterizzata da cambiamenti rapidi e radicali.
Lo stare insieme non può solo essere mirato al consenso elettorale perché è ormai evidentemente che la somma algebrica dei consensi ottenuti nell’aera di centro-destra non ha nulla a che vedere con la costruzione di un centrodestra degno di questo nome, moderno e adatto a rispondere alle sfide della contemporaneità, che tenga conto della mutata situazione socio-politica nazionale e internazionale.
Su cosa allora – superati i personalismi, i veti incrociati, la regolazione di conti – le forze che occupano l’area di centrodestra possono oggi incontrarsi proficuamente? Sull’elaborazione di un progetto concreto che dia il senso di una visione condivisa della società, del sistema politico-istituzionale, dell’economia. “Il punto non è deprecare il presente, ma comprendere il significato delle tante cose che accadono e costruire un futuro tanto prossimo quanto necessario” (G. Zagrebelsky, Contro la dittatura del presente, 2014).
Ed ecco il ruolo degli intellettuali, che non è assolutamente detto debbano e possano solo lavorare su questioni valoriali e identitarie, su “manifesti” programmatici. Essi possono fornire e condividere analisi socio-politiche, individuare i fini condivisi, prospettare modelli socio-economici e istituzionali concreti da realizzare nel lungo periodo.
Perché questo “lavoro” dovrebbe essere svolto dagli intellettuali? Perché la politica è bloccata su due questioni piuttosto limitanti: da un lato, la contingenza politica, la necessità di risolvere la drammaticità dell’oggi in un perenne stato di emergenza che non permette di sollevare lo sguardo e guardare più in là di qui e ora; dall’altro, la sovrapposizione fallace di popolarità e consenso, che concentra gli sforzi comunicativi sulla prima, trascurando quella che dovrebbe essere un’ovvietà, vale a dire che il consenso politico-elettorale e tutt’altra cosa.
Gli intellettuali, non organici, ma capaci di immaginare e dissentire, proporre e innovare, possono dare prospettiva al futuro di un’area politica e di una Nazione, e così dare anche contenuto alla comunicazione politica, trasformando la tanto blandita popolarità digitale e massmediale, effimera e cangiante, in consenso politico ed elettorale, solido e duraturo.

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