Governo
Il PIL non cresce perchè gli investimenti degli Enti Locali languono
Il PIL italiano non cresce allo stesso ritmo dei maggiori Paesi industrializzati? Colpa, anche, dei tagli orizzontali praticati alla finanza locale nell’ultimo decennio. Che hanno finito per far calare la mannaia sugli investimenti pubblici, gestiti, per 2/3, proprio dalle Amministrazioni periferiche. É quanto emerge da un’articolata analisi condotta dal Centro Studi di Cassa Depositi e Prestiti nell’ultimo “Rapporto sulla finanza locale” , con cui è stata indagata la correlazione tra investimenti e Prodotto Interno Lordo.
Che l’Italia, pur in presenza di timidi segnali di ripresa degli ultimi mesi, corra più lentamente di altri Paesi, non è un mistero. L’ultima conferma è arrivata dal rapporto dell’Ocse reso pubblico negli scorsi giorni fa: assunto 100 come valore di riferimento nel 2010, l’Italia, nel secondo trimestre, ha raggiunto 99,1 punti di PIL, mentre la media Ocse è pari a 113,3 punti (riferita, però, al primo trimestre). Nella fotografia degli ultimi sette anni, poi, solo la Grecia è alle nostre spalle, con 81,6 punti, la Germania segna invece 112,6 punti, la Francia 107,6, il Regno Unito 114 punti e gli Stati Uniti 115,2.



Infatti, nonostante, a partire dal 2010, l’Italia abbia potuto beneficiare di congrui risparmi sulla spesa degli interessi sul debito pubblico – tra il 2008 e il 2015: -22%, equivalenti a 17,8 miliardi di risparmi – questo minore esborso è stato compensato da un incremento della spesa pensionistica (+11%), a cui, nell’ultimo ventennio, è attribuibile addirittura il 45% dell’incremento della spesa pubblica primaria. Con l’evidente risultato dell’impossibilità di liberare risorse necessarie a disporre di un quadro complessivo di finanza pubblica più favorevole e dunque utile ad allentare le ganasce sulla spesa degli Enti Locali. Nei bilanci dei quali, nel medesimo arco temporale, gli investimenti hanno subito una contrazione in termini reali di circa il 32%: se nel 2008 quasi il 22% della spesa totale era destinata agli investimenti, nel 2015 questa voce si è ridotta fino a una quota pari al 16%.
Cosa sarebbe accaduto se le Amministrazione Pubbliche, ed in particolare quelle in periferia, avessero potuto perseguire una politica espansiva o almeno non regressiva sulla spesa per investimenti? L’analisi di Cdp prova a rispondere a questo quesito prima di tutto prendendo le mosse, in un’ottica comparativa, dal gap di crescita registrato in Italia rispetto a Germania, Francia, Spagna ed Europa: “il PIL nel 2016”, si legge nello studio, “è ancora il 6% inferiore in termini reali rispetto ai valori del 2008, mentre è più alto dell’8,2% in Germania e del 5% in Francia”. L’indagine degli studiosi approfondisce quindi il possibile quadro, in termini di crescita reale del PIL effettivo, che si sarebbe venuto a configurare “neutralizzando” la politica di contenimento della spesa pubblica. “Seppur necessaria, soprattutto nella fase iniziale della crisi”, viene chiarito dagli autori.
Ebbene, ciò che emerge è che il gap di crescita sarebbe stato inferiore di circa un terzo rispetto a Germania e Francia, mentre sarebbe stato superiore nel caso della Spagna, che ha attuato politiche ancora più restrittive del nostro Paese.
Chiara la conclusione a cui giunge il centro studi di Cdp: “la decisione di far cadere sui bilanci della Amministrazioni Locali buona parte del consolidamento fiscale nazionale non sembra essere una policy ottimale: è infatti sui bilanci degli Enti Territoriali […] che risiede l’onere maggiore degli investimenti pubblici e ancor più quello degli investimenti infrastrutturali”. Come quelli, di cui lo stesso Rapporto si occupa e che drammaticamente sono balzati in questi giorni agli onori delle cronache, che servirebbero per ammodernare il nostro sistema idrico.
@albcrepaldi


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