
Partiti e politici
Riuscirà la guerra commerciale di Donald a risvegliare l’Italia anestetizzata di Giorgia? (spoiler: No)
Nel mezzo della terza estate di governo Meloni, dopo essere stati attesi, annunciati, rinviati, rimaneggiati, arrivano i dazi di Donald Trump. In un paese e in una società che sembrano composti da una grande maggioranza indifferente a tutto, tranne a ciò che tocca la propria roba, viene normale chiedersi se e quanto un impatto economico e materiale ancora non esattamente calcolabile avrà l’effetto di smuovere dubbi, o almeno di movimentare le acque di una delle fasi politiche più tranquille, regolari e noiosamente rassicuranti che il nostro paese ricordi da molti anni.
Infatti, se a Meloni avessero detto tre anni fa che di lì a poco avrebbe vinto e elezioni e che, soprattutto, avrebbe governato per tre anni di fila senza vere crisi, con le sole dimissioni di un ministro per una storia di (forse) letto, probabilmente non ci avrebbe creduto. Ma di certo, come si dice, ci avrebbe messo la firma. Oggi ci terrebbe sicuramente – anche comprensibilmente – a sottolineare quanta fatica, quanto lavoro, quanto impegno ci è voluto. Non potrebbe dire – ma certo ci penserebbe – a quanti fastidi le hanno provocato le solite bizze di Salvini, i distinguo impettiti di Tajani che hanno avuto bisogno di essere riportati all’ordine addirittura dagli azionisti di controllo della famiglia Berlusconi (da ultimo, Pier Silvio), e varie altre questioni ancora meno importanti. Ma insomma, innegabilmente arriva allo scoccare del terzo anno di legislatura abbastanza in scioltezza, almeno guardando la vicenda con le lenti di chi fa politica.
La presidente del Consiglio ha annunciato in maggio una scontata ricandidatura per la prossima legislatura, e mentre già circolano card sui social che la sostengono in vista di elezioni che salvo sorprese si terranno a scadenza naturale, nel 2027. All’interno della coalizione con cui ha vinto le elezioni e con la quale governa, semplicemente, non ha veri competitor. Non avere troppo da temere dagli “amici”, come insegnano la storia politica italiana degli ultimi trent’anni di faticoso e imperfetto bipolarismo, significa eliminare la principale fonte di rischio per la propria vita politica. Salvini e Tajani sono principalmente occupati a farsi sgarri e dispetti reciproci, con l’obiettivo di arrivare secondi all’interno appunto della coalizione. Naturalmente contano molto le partite intermedie, i governatori di regione da eleggere in autunno, i sindaci da candidare e le città da contendere. Tutta materia di competenza naturale e di gestione ordinaria per chi fa politica nei partiti fin dall’infanzia, come lei.
Quanto alle opposizioni, l’unica possibilità di essere vagamente competitive sarebbe nell’unità totale e integrale di tutti, da Calenda a Fratoianni, da Renzi a Conte, da Schlein a Gori. È l’unico modo, eppure chiunque abbia osservato con un po’ di attenzione la vita politica di ciascuno di loro, e di tutti gli altri, continua a sembrare un’idea innaturale. Soprattutto, qualcosa che non somiglia al desiderio di ciascuno di loro.
E qual è dunque il segreto del successo di Meloni? Come ha fatto ad arrivare viva e vegeta, e sostanzialmente nel pieno esercizio di una “egemonia leggera”, a tre anni dalla nascita del governo, avendo attraversato un ciclo politico segnato inizialmente da ancora una forte inflazione (che ora potrebbe tornare a mordere a valle dei dazi), il perdurare senza sbocchi della guerra di Putin all’Ucraina, il massacro di Gaza, la strage di migranti a Cutro, e molte altre contingenze, nessuna particolarmente favorevole? Il suo vero segreto è la capacità di tacere e rinviare, che poi in buona parte sono due modi diversi di raccontare le stesse (in)azioni. Aveva promesso riforme costituzionali e istituzionali radicali, a cominciare dal premierato per garantire governabilità e trasparenza agli elettori. Poi, su pressione leghista, doveva arrivare anche l’autonomia differenziata: arrivare non per modo di dire, ma diventare davvero operativa. Infine, doveva essere riformata la giustizia, attorno al perno della separazione delle carriere. Di tre grandi riforme passerà probabilmente solo quest’ultima perché, al di là dei proclami che la vogliono contraria al vivacchiare, anche Meloni sa che è sempre meglio sopravvivere, e tirare troppo la corda sulle riforme non ha mai portato fortuna a nessuno dei suoi predecessori. A tacere del fatto che tanto ingovernabile il paese non dev’essere, se lei governa con continuità da tre anni, avendo preso il 45% dei voti espressi nel 2022, corrispondenti a circa il 30% del corpo elettorale.
Naturalmente, non manca chi rivendica, insieme e lei e per lei, i risultati dell’azione di governo, lo zerovirgola in più di crescita, la piena occupazione, e così via. Non voglio, davvero, sminuire impegno e risultati, ma nemmeno è ragionevole accodarsi alla propaganda che, per definizione, racconta solo ciò che è comodo al potere di provenienza. I veri problemi del paese hanno radici antiche che andrebbero affrontate sistemicamente, non lo sta facendo questo governo, e non lo ha fatto fatto nessuno dei precedenti. Delle cose importanti, come la questione demografica, si continua a non parlare per evitare imbarazzanti verità: ad esempio che tra qualche decennio non è chiaro come sarà sostenibile un sistema con tre quarti di residenti in età da pensione, e già solo per questo bisognerebbe chiedere a Pier Silvio Berlusconi se ha capito qual è il vero tema della riforma della cittadinanza, o qual era il vero tema della riforma sulla cittadinanza.
Ma di tutte queste questioni Giorgia non parla mai. Aumenta le quote di ingresso per i migranti lavoratori, ma alla chetichella, senza spiegare ai suoi che è il grande tema di oggi e di domani. Allo stesso modo, non spiegherà il rinvio delle riforme, e dirà che se ne parlerà la prossima legislatura se gli italiani le rinnoveranno la fiducia. E poi si vedrà. Forte della progressiva perdita di rilevanza autonoma del paese – non dipende da lei, risale nei decenni, chiunque dica che grazie a lei oggi o grazie a Draghi ieri “l’Italia ha ritrovato centralità” sta aderendo a una propaganda – Meloni può facilmente tacere un po’ su tutto. Su Gaza, sui dazi che tanto sono di competenza europea, accordarsi sull’Ucraina, rinviare sul riarmo: nessuno ci metterà davvero fretta.
Per questo non dovrebbe sorprendere, anche se può sicuramente indignare o scandalizzare, il silenzio tombale del governo sul nuovo caso politico e diplomatico che ha investito Francesca Albanese, la giurista italiana che dal 2022 è relatrice speciale per i Territori Occupati per le Nazioni Unite, cioè svolge un ruolo di indagine e rapporto sui diritti umani su incarico ufficiale dell’ONU, ma resta comunque una figura indipendente che quando prende posizione non lo fa a nome delle Nazioni Unite. Il Segretario di Stato USA Marco Rubio ha annunciato “sanzioni” contro di lei, accusandola di muovere critiche ingiutificate e lesive ad aziende statunitensi e israeliane. Quella di Rubio è solo l’ultimo e più pesante capitolo di una lunga serie di attacchi diretti contro Albanese. Lei non si è mai nascosta, né mai ha ammorbidito i suoi toni. Soprattutto, non ha mai disdegnato – sicuramente legittimamente, ferma restando la possibilità di valutazione di inopportunità anche rispetto ai fini che si poneva e pone, oltre che di critiche di merito, purchè fondate e rispettose – prese di posizione apertamente politiche e non solo tecnicamente giuridiche, sul conflitto e sull’occupazione. La sua voce ha dato sicuramente fastidio, e basta vedere quante risorse e attenzione ha investito il governo di Israele per attaccare il suo operato. Basta cercarla su Google, ad esempio, per imbattersi in prima pagina in un contenuto sponsorizzato che, travestito da dossier oggettivo, mette in fila punti di vista unilateralmente critici e accusatori nei confronti del lavoro di Albanese, bollandola sostanzialmente come antimeita (accuse analoghe, è bene ricordarlo, erano state in passato rivolte a chi ricopriva il suo ruolo prima di lei).
Sicuramente non è un caso che la presa di posizione di Rubio sia arrivata subito dopo la diffusione del rapporto sull’economia del genocidio, nel quale si denunciano le cooperazioni economiche di grandi imprese USA con la macchina bellica israeliana applicata alla distruzione di Gaza. Gli affari sono sempre in cima alla lista delle preoccupazioni, e in fondo lo dimostra l’insistenza di Trump sui dazi. Per una cittadina italiana si sono spesi l’ONU e la capa del principale partito di opposizione. Meloni se n’è guardata bene: intanto perché probabilmente è d’accordo con Rubio. Sicuramente perché non ha nessuna intenzione di contraddire Trump. E poi perché, alla fine, tutto passa e tutto scorre, in quest’epoca indifferente a tutto. Parlare di qualcosa significa farlo vivere. Tacerne significa invece assecondarne l’archiviazione indolore. E torniamo, peraltro, al punto di partenza, cioè alla stessa strategia che spiega la questione Almasri-Piantedosi-Nordio, esploso in settimana, e ogni altra vicenda che con lenti politiche antiche sembra importante. Oggi di importante non c’è più niente. Un po’ perchè al di là delle retoriche patriottarde l’Italia è sempre più periferica, e quindi meno rilevante. E un po’ – soprattutto – perchè il corpo grosso della società è indifferente a quasi tutto, se non pensa che sia sulla porta di casa, nel suo conto in banca o dietro l’angolo. Giorgia Meloni lo sa, e sa trarne il massimo vantaggio.
(immagine di copertina tratta dal profilo Facebook di Giorgia Meloni)
Devi fare login per commentare
Accedi