Bonelli, Conte, Fratoianni Schlein, tra i principali protagonisti del Campo Largo

Partiti e politici

Il campolargo non decolla, anzi. E l’astensione aumenta

30 Settembre 2025

Doveva essere il primo test regionale realmente “significativo” per il Campo Largo, dopo quelli un po’ scontati di Umbria ed Emilia-Romagna dello scorso anno. Voleva tracciare la rotta per il futuro cammino della possibile fattiva collaborazione tra (quasi) tutte le forze politiche dell’opposizione, in vista della discesa in campo compatta delle prossime elezioni politiche, nel 2027. Questi i desideri dei leader dei partiti associati, da Schlein a Conte, da Boselli a Fratoianni fino a tutti gli altri.

Viceversa, è stato un mezzo flop, quanto meno per la incapacità del cosiddetto compolungo (che a me piace come nome più di campolargo) non soltanto di vincere, ma quanto meno di essere un minimo competitivo. Un flop per la sua incapacità di diventare un solido punto di riferimento per le decine di migliaia di elettori che hanno disertato le urne nel più recente passato. Quello che era forse il loro obiettivo primario: far rinnamorare della politica gli astenuti di sinistra, che da qualche anno continuano a crescere e a riprodursi.

Che spiegazione ci danno i numeri del giorno dopo, di questa sconfitta certo un po’ annunciata dai sondaggi pre-elettorali ma comunque non così larga – ben otto punti – come alla fine si è manifestata? Ci sono quattro elementi interessanti che raccontano questa sconfitta. Innanzitutto, la tradizione politica della regione: le Marche sono sempre state considerate una regione “rossa”, ma in realtà sono storicamente divise in due. Il nord – Pesaro e Ancona – è più progressista, mentre il sud – con Macerata e Ascoli – ha una forte componente cattolica e moderata. Anche stavolta si è ricalcata questa divisione.

Ma con una differenza fondamentale, ed è il secondo punto: oggi si è inserita una dinamica ormai ricorrente, quella tra centro e periferia, tra grandi città e piccoli comuni. È una frattura che penalizza molto il centrosinistra, una cesura che prima ancora che politica è sociale e si è oramai radicata in tutto il Paese.

Non è certo un fenomeno inedito. Accade così un po’ dovunque nei paesi occidentali, ed era già visibile nella precedente tornata elettorale, che aveva visto la vittoria a sorpresa di Acquaroli. Anche allora si parlava di una distanza tra città e aree interne, e i risultati lo confermavano. Ma questa situazione pare si stia decisamente cronicizzando, con poche eccezioni: nei centri urbani il centrosinistra regge, ma nelle aree periferiche e nei piccoli comuni crolla.

Paradigmatici sono alcuni casi: a Urbino ha vinto il centrosinistra con 10 punti di vantaggio, mentre a Urbania – un paesino a 3 km di distanza – ha vinto il centrodestra con 13-14 punti di differenza. A Pesaro città il centrosinistra ha vinto per 51 a 45. Ma nel resto della provincia ha prevalso il centrodestra con 6-7 punti di vantaggio. Quindi c’è una differenza a volte anche di 15-20 punti tra città e campagna, se non di più, come nel caso della provincia di Fano.

Il terzo fattore è legato al fatto che l’alleanza con il M5S non sia stata per nulla premiante. Non lo è stata né in termini di voti “aggiuntivi” né in termini di capacità di attrarre nuovi elettori o riattivare quelli delusi. Se sommiamo i voti che presero nel 2020 separatamente PD e M5S, arriviamo al 45%. Oggi, uniti, sono al 44,4%. La differenza non è enorme, ma non c’è stato alcun significativo valore aggiunto. Il “campo lungo”, come lo chiamo io, non ha portato via voti al centrodestra, né ha recuperato nell’area dell’astensionismo, che resta cronico e si incrementa ulteriormente di quasi 10 punti. E questo è un deciso fallimento.

Il campo largo, ultimo punto, non ha mobilitato l’elettorato sfiduciato: se l’obiettivo era quello di riattivare quella parte dell’elettorato di sinistra un po’ delusa, possiamo certo dire che è fallito. L’astensione è aumentata, e questo ha colpito di più il centrosinistra. Il centrodestra ha perso circa l’8% di elettori rispetto alla scorsa volta, ma il centrosinistra, considerando anche i 5 Stelle, ne ha persi il 14%. Quindi non solo non si è recuperato, ma si è perso di più.

Per la segretaria del Pd, insomma, questa appare come una doppia sconfitta: non ha strappato la regione al centrodestra e neppure ha rimotivato i suoi che avevano defezionato in passato. Certo, tutti soffrono del tendenziale incremento astensionistico, ma se ti presenti come la forza del cambiamento e poi non riesci a convincere nemmeno gli astenuti, significa che c’è un problema profondo. Se il centrosinistra non cambia radicalmente linguaggio, priorità e strategia – e non solo le alleanze – rischia di non essere competitivo né nelle prossime regionali né tantomeno nelle elezioni politiche del 2027.

 

Università degli Studi di Milano

 

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