
Partiti e politici
Il referendum non funziona più: ecco perché
Quale lezione possiamo ricavare? questo referendum, che partiva perdente, ha permesso a tutti gli elettori contrari al governo Meloni di utilizzare la chiamata alle urne come una sorta di elezione mid-term. Sarà così anche alle prossime elezioni?
Già si sapeva tutto, del risultato di questo referendum: grazie ai sondaggi che ormai sfiorano la perfezione, un’affluenza superiore al 30% (quindi insufficiente) e una inutile plebiscitaria vittoria dei sì, un po’ meno per il quesito sulla cittadinanza, erano dettagli noti da tempo. Ne scrissi giusto un mese fa proprio qui.
Facile profeta, potrebbero dire i miei 25 lettori (Manzoni docet). Soprattutto dopo la campagna sulla diserzione che ha indotto gli elettori di opposizione a recarsi compatti alle urne.
Infatti: gli oltre 13 milioni che hanno scelto di votare SI, sono la riproduzione plastica dello stesso numero di elettori che, alle ultime politiche del 2022, hanno votato per il centro-sinistra o per il Movimento 5 stelle o per il due Calenda-Renzi. Sommando tra loro tutti quelli che hanno scelto queste forze politiche, si arriva proprio alla stessa cifra.
Qual è la lezione che possiamo ricavare? Che c’è stato un semplice ma significativo attestato di testimonianza: questo referendum, che partiva perdente, ha permesso a tutti gli elettori contrari al governo Meloni di utilizzare la chiamata alle urne come una sorta di elezione mid-term, per usare un gergo americano.
Facciamo vedere che ci siamo e che, forse, in termini numerici e di alleanze, possiamo contare di più della nostra parte avversa: il centro-destra ha ottenuto nel 2022 il consenso di poco più di 12 milioni, quindi è battibile, a patto che tutte le forze di opposizione si uniscano, senza troppi distinguo.
Purtroppo per loro, c’è da sottolineare il dato del quesito sulla cittadinanza, che può insinuare dei dubbi sulla possibilità di formare effettivamente una coalizione coesa. È probabile che questi voti arrivino in parte proprio dal Movimento 5 stelle, che già nel 2019 non aveva impedito i decreti Salvini sugli immigrati.
Ma torniamo all’istituto referendario. Inutile ribadire il fatto piuttosto noto dell’ormai scarso appeal che esercita la disciplina del referendum. Finché si continueranno a chiamare alle urne i cittadini su tematiche (sia pur importantissime) non certo così eticamente coinvolgenti come il divorzio, l’aborto o il nucleare, non ci si può meravigliare del difficile ottenimento del quorum. Soprattutto per tre ragioni che si rafforzano a vicenda, al di là dei quesiti in sé.
La prima è legata al progressivo incremento in generale dell’astensionismo (analizzato in profondità in un libro appena uscito, “Schede bianche”, che ho scritto insieme ai miei due colleghi Fasano e Biorcio), caratterizzato da una diffusa apatia della popolazione elettorale.
La seconda è la maggior facilità di ottenere le firme referendarie online, che appare una sorta di partecipazione “passiva”, rispetto a quando si doveva uscire per la strada e andare a firmare di persona. Forse il numero di firme andrebbe innalzato…
La terza ragione è più tecnica, e riguarda proprio il sistema che viene adottato nei referendum, vale a dire la richiesta che ci sia una affluenza superiore al 50% dell’intero elettorato per renderne i suoi risultati ammissibili. Una richiesta evidentemente priva di logica.
Perché? Per un motivo molto semplice: se siamo in un periodo in cui nemmeno per le elezioni politiche si reca alle urne più del 65% degli aventi diritto, non è chiaro il motivo per cui in un referendum si debbano conteggiare anche tutti coloro che non hanno nessuno intenzione nemmeno di votare per un partito. Sarebbe più corretto che il quorum fosse legato alla quota di votanti delle ultime elezioni politiche. Quindi, in questa occasione, intorno al 32-33%.
Ma, stranamente, o forse no, dopo qualche giorno da ogni referendum, nessuno ne parla più e si continua così, come molto spesso accade in politica. L’emozione suscita risposte che poi la ragione giudica superflue.
Alla fine, come sempre accade, tutti possono sottolineare di aver vinto: i promotori, da una parte, per il buon risultato ottenuto comunque dai temi referendari (che sono certo boicottati dall’informazione “filo-governativa”); le forze politiche di maggioranza, dall’altra, per il comportamento astensionistico della grande maggioranza degli italiani, segno che queste tematiche – a loro dire – non interessano alla gente e debbono essere gestite dal parlamento e dai governi.
Risultato: un ulteriore pesante tassello a favore dell’apatia partecipativa.
Università degli Studi di Milano
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