Partiti e politici
Lettera a Carlo Calenda
Un confronto diretto con la tua serietà che pesa più di quel che sostiene.
Caro Carlo Calenda,
ti scrivo senza chiedere risposta. Non perché non potresti darla, ma perché non servirebbe. Tu rispondi sempre, a chiunque, su qualunque cosa, con quella tua serietà compulsiva che trasforma ogni frase in un comizio da aula magna senza studenti. È una vocazione. Un istinto. Un’inclinazione naturale alla gravità anche quando il tema non lo richiede.
Hai costruito una carriera sul principio secondo cui sei tu l’adulto nella stanza. Poi uno entra nella stanza e scopre che è vuota. Parli come se ti ascoltassero folle disciplinate, mentre spesso ti ascolti soltanto tu, avvolto nel suono pieno e autorevole della tua stessa pazienza verso il mondo.
La tua idea di leadership è un soliloquio. Dici “noi” e intendi “io”. Dici “competenza” e intendi “ci penso io”. Dici “serietà” e intendi “statemi dietro”. Hai trasformato il tono assertivo in una corazza. Ogni volta che si apre uno spiraglio umano, tu lo richiudi con un richiamo all’ordine, alla ragione, alla disciplina. Una disciplina che imponi agli altri, mai a te stesso.
Ti muovi con l’aria di chi deve rimettere tutto a posto. Mancasse solo che qualcuno ti chieda davvero di farlo, scopriremmo l’ansia da prestazione sotto la giacca. E invece ti tieni nel territorio che preferisci: l’annuncio, il monito, la dichiarazione che rassicura te più che noi. Parli come se ogni frase dovesse essere ricordata nei manuali di scienza politica, quando spesso non resta nemmeno nei tweet che la contengono.
C’è in te un’ostinata solitudine. Una solitudine che non ammetti, che nascondi dietro la postura del competente. Ogni tuo discorso è una convocazione generale a un paese che non arriva mai all’appello. Ogni tua idea sembra una bozza di progetto che non diventa mai realtà perché nel frattempo devi ricordare al mondo che l’hai avuta tu per primo.
Non ti scrivo per correggerti. Non ti scrivo per farti cambiare tono. Ti scrivo per dirti che la tua serietà mette stanchezza. È un peso senza profondità. Una verticalità senza vertigine. Un richiamo costante a un ordine che non esiste più. E non esiste più perché non sei tu a doverlo dare. Il mondo, quando vuole essere salvato, non cerca mai un supervisore.
Questa lettera non è un rimprovero. È una resa dei conti con una maschera. La maschera dell’uomo che ha sempre tutto sotto controllo. Nessuno ha tutto sotto controllo. Nemmeno tu. E forse basterebbe dirlo una volta, invece di spiegarlo a memoria ai distratti.
Non ti chiedo di rispondere. Anzi.
Questa è una delle poche cose che non devi spiegare.
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