Partiti e politici
Referendum: ci andranno in pochi e vincerà inutilmente il sì
I problemi del prossimo referendum: livello di informazione spontanea molto basso; volontà di andare alle urne (“ci andrò sicuramente”) inferiore ad un terzo degli aventi diritto; vinceranno i SI, ma senza alcuna conseguenza effettiva.
Inutile ribadire, già fin subito, il fatto piuttosto noto dell’ormai scarso appeal che esercita la disciplina del referendum. Finché si continueranno a chiamare alle urne i cittadini su tematiche (sia pur importantissime) non certo così eticamente coinvolgenti come il divorzio, l’aborto o il nucleare, non ci si può meravigliare del difficile ottenimento del quorum. Soprattutto per due ragioni che si rafforzano a vicenda, al di là dei quesiti in sé.
La prima è legata al progressivo incremento in generale dell’astensionismo (analizzato in profondità in un libro in uscita a breve, “Schede bianche”, che ho scritto insieme ai miei due colleghi Fasano e Biorcio), caratterizzato da una diffusa apatia della popolazione elettorale.
La seconda ragione è più tecnica, e riguarda proprio il sistema che viene adottato nei referendum, vale a dire la richiesta che ci sia una affluenza superiore al 50% dell’intero elettorato per renderne i suoi risultati ammissibili. Una richiesta evidentemente priva di logica. Perché? Per un motivo molto semplice: se una certa legge è stata promulgata da un governo formatosi all’indomani di una elezione in cui ha partecipato, supponiamo, solo il 70% dei cittadini (e non il 100%), sarebbe più corretto che il quorum fosse legato a quella quota di votanti. Quindi, il quorum dovrebbe essere almeno della metà di quel 70%.
Se siamo in un periodo in cui nemmeno per le elezioni politiche si reca alle urne il 60-70% degli aventi diritto, non è chiaro il motivo per cui in un referendum si debbano conteggiare anche tutti coloro che non hanno nessuno intenzione nemmeno di votare per un partito.
Ma, stranamente, tutte le decine di costituzionalisti che intervengono su qualsiasi cosa, non fanno mai riferimento a questa chiara anomalia. Per abrogare una legge fatta da un parlamento espressione del 70% dei cittadini, dovrebbe essere sufficiente l’affluenza di almeno la metà di chi ha votato per quel parlamento. Mi pare un ragionamento quasi ovvio.
Ma veniamo finalmente a scoprire cosa accadrà nel referendum dell’8-9 giugno prossimo, composto come noto (in realtà poco noto..) da cinque quesiti, quattro sul lavoro e uno sulla cittadinanza.
Una situazione che appariva già prevedibile, senza bisogno di tanti sondaggi, viene ratificata anche dalle più recenti indagini demoscopiche: il livello di informazione spontanea sia sulle scadenze referendarie che sui temi in gioco non arriva nemmeno ad un quarto della popolazione; la volontà di andare alle urne (“ci andrò sicuramente”) è inferiore ad 1/3 degli aventi diritto, con punte massime tra gli elettori di centro-sinistra e di sinistra.
Coloro che poi si recheranno a votare sceglieranno ovviamente il Sì all’abrogazione, in vasta maggioranza più o meno per tutti e cinque i quesiti. Alla fine, tutti potranno sottolineare di aver vinto: i promotori, da una parte, per il buon risultato ottenuti dai temi referendari (che diranno certo boicottati dall’informazione “filo-governativa”); le forze politiche di maggioranza, dall’altra, per il comportamento astensionistico della grande maggioranza degli italiani, segno che queste tematiche – a loro dire – non interessano alla gente e debbono essere gestite dal parlamento e dai governi.
Risultato: un ulteriore pesante tassello a favore dell’apatia partecipativa.
Università degli Studi di Milano
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