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Partiti e politici

Solo il 33% resta fedele al proprio voto

di Paolo Natale
2 Aprile 2021

Lo sappiamo da anni ormai. La volatilità elettorale, la infedeltà cioè al proprio partito, o quanto meno all’ultimo partito votato, sta raggiungendo vette inesplorate in tutta la storia elettorale italiana. Se si escludono le consultazioni del 1994, quando l’offerta politica era mutata in maniera significativa, fino ad un decennio fa il mutamento di voto tra una elezione e l’altra era rimasto circoscritto attorno al 10-15% dell’elettorato. Nelle ultime due Politiche e nelle ultime due Europee, al contrario, i tassi di infedeltà sono almeno raddoppiati, avvicinandosi quasi al 40% del corpo elettorale, il che significa che soltanto poco più di un elettore su due ha confermato la propria scelta di partito fatta nella consultazione precedente.
La storia della fedeltà elettorale è piuttosto lunga e complessa, ed ha vissuto tre fasi particolarmente significative. Fino agli anni Ottanta il sistema partitico è stato caratterizzato da un’estrema staticità, con incrementi o decrementi dei consensi limitati a pochi punti percentuali: l’elettore aveva un alto livello di vischiosità (si è per questo coniato il termine di “fedeltà pesante”), derivante o da appartenenza (sub-culturale) o dal voto di scambio, che permetteva il costante processo di allocazione mirata delle risorse economiche, determinante soprattutto nel meridione a favore del partito egemone, la DC.
A partire dagli anni Novanta, con il deciso incremento del voto d’opinione, il concetto di “fedeltà leggera” diviene un patrimonio interpretativo particolarmente efficace per leggere i risultati elettorali. L’idea si basa sul presupposto che, da un parte, il credo politico non sia più così fondamentale, per il cittadino-elettore, nella formazione della propria personalità, come lo era stato al contrario nei decenni precedenti (da qui, l’idea di una sorta di “leggerezza” nel proprio coinvolgimento elettorale); dall’altra, che permanga comunque una forte fedeltà di voto, legata non già al partito quanto alla propria coalizione o alla propria area politica di riferimento.
Il voto riacquistava dunque una nuova forma di stabilità, motivata non più dall’importanza che il partito rivestiva come rappresentante dei propri interessi, o della propria sub-cultura di riferimento, quanto dalla condivisione delle ideologie che le due aree politiche rappresentavano: destra contro sinistra, stato contro mercato, berlusconismo contro anti-berlusconismo sono state, fino alla fine del primo decennio del nuovo secolo, le fratture che determinavano maggiormente la scelta di voto dei cittadini.
Dal secondo decennio del secolo, infine, con la comparsa di nuove valide alternative di voto (a cominciare dal Movimento 5 stelle) da una parte, e con il progressivo ridimensionamento politico di Berlusconi dall’altra, una parte considerevole di elettori inizia a sperimentare nuove strade, legate più a motivazioni contingenti, episodiche, che a forti legami con i partiti. Così, volta per volta, il cittadino sceglie i partiti personali, gli slogan più convincenti, i temi di attualità, senza più alcuna logica di fedeltà.
Oggi le ultime stime di voto ci raccontano dunque che, rispetto alle ultime europee, soltanto un elettore su tre ha intenzione di ribadire il proprio voto passato. Un mercato elettorale che somiglia sempre più alla scelta di quale serie Tv guardare, nelle lunghe serate di lockdown.

Università Statale di Milano

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