Non dimentichiamo i 100mila morti delle Ardenne, l’Europa è nata lì
Ardenne, gennaio 1945. Mancano pochi mesi ormai alla fine del secondo conflitto mondiale, ma non lo diresti mai, osservando l’inferno che ancora infuria nella campagna belga e francese. La macchina da guerra tedesca, pure esausta e impegnata duramente su tre fronti (ad Est dai sovietici, a Sud e ad Ovest dagli angloamericani), ha appena dimostrato di saper ancora essere letale con l’improvvisa controffensiva, nota proprio come “offensiva delle Ardenne”, scatenata da Hitler nel Dicembre 1944.
Si tratta dell’ultima grande azione d’attacco portata della Germania nazista durante il conflitto. Una mossa dettata dalla disperazione, ma non per questo priva di una sua spietata astuzia ed abilità strategica.
E infatti, nonostante la grande superiorità alleata di uomini e mezzi (l’esercito nazista poté schierare nell’operazione soltanto 74 divisioni, incalzato com’era dai russi ad Est) durante la prima settimana le forze tedesche ottennero alcune significative vittorie, riuscendo a sfondare in profondità le linee Alleate.
Totalmente sorpresi, i comandi angloamericani e le truppe sul campo, preda di un eccessivo sentimento di superiorità e sicurezza, mostrarono preoccupanti segni di cedimento e sbandamento. Furono in molti a temere un disastro strategico, e sia Churchill che Roosvelt non nascosero ai propri comandanti la loro ira per quel grave smacco.
La battaglia terminò, dopo un mese di asprissimi scontri e un imponente invio di rinforzi, con la vittoria finale degli Alleati e il fallimento dell’offensiva tedesca, ma le dure perdite subite nelle Ardenne, soprattutto dall’esercito statunitense, costrinsero ad una revisione degli schieramenti e dei piani e rallentarono di molto l’attacco al cuore della Germania. Quella che doveva essere una cavalcata trionfale verso Berlino divenne una penosa marcia di avvicinamento fatta di stenti, imboscate, difficoltà, freddo, trinceramenti e disagi infiniti, che si risolse soltanto mesi dopo, e principalmente grazie alla ben più spedita avanzata sovietica.
I civili, durante quei mesi terribili, continuarono a pagare un tributo enorme, presi di mira come furono dalla forza tedesca in ritirata, disperata e per questo ancor più crudele. Giovani di ogni nazionalità morirono in quelle campagne, spesso senza nemmeno la possibilità di una sepoltura decorosa.
Solo nella battaglia delle Ardenne persero la vita 30mila tedeschi e più di 40mila soldati americani, oltre a centinaia di soldati britannici e ad alcune migliaia di civili francesi. E questa, ovviamente, è soltanto una goccia nel mare della guerra che lacerò quasi ogni angolo d’Europa.
Ardenne, Gennaio 2015.
Il treno che corre veloce oltre la frontiera tra Germania, Belgio e Francia è talmente silenzioso che ti accorgi a malapena della sua alta velocità. Fuori dal finestrino, si susseguono cittadine ordinate e funzionali, campi coltivati, una campagna che nonostante la stagione appare ridente, generosa, ricca. Non c’è nulla di inquietante in quei boschi, nulla che turbi l’animo in quei torrenti che scorrono sotto lo sguardo del viaggiatore.
Stesso posto, settant’anni dopo.
Proprio per questa differenza, tre anni fa, nel 2012, l’Unione Europea è stata insignita del premio Nobel per aver contribuito alla pace, alla riconciliazione, alla democrazia e alla valorizzazione dei diritti umani nel Vecchio Continente. Il comitato norvegese ha motivato la sua decisione sottolineando la funzione di stabilizzazione svolta dall’UE nel trasformare la maggior parte dell’Europa da un continente da sempre versato alla guerra in un continente di pace.
Come si ricorderà, è stata una scelta che venne aspramente criticata da molti. E c’è da scommettere che, se quello stesso Nobel fosse stato assegnato oggi, lo scalpore sarebbe stato ancora maggiore, visto il sentimento di ostilità che attualmente buona parte degli europei prova verso l’Unione. Un sentimento che spesso trova ampia giustificazione nelle tante insufficienze di questo nostro così imperfetto organismo sovranazionale.
Eppure, nella ricerca delle soluzioni a questi problemi, spesso di natura politico economica, non possiamo mai dimenticare la lezione che invece ci viene dalla storia. E quella lezione è che noi europei abbiamo un disperato bisogno dell’Europa unita.
Questo, sia chiaro, non vuol dire accettarla acriticamente per quello che è oggi, o permettere che essa indebolisca la libertà dei suoi singoli componenti. Al contrario. Una conoscenza critica del passato deve farci da stimolo a riconoscerne gli attuali limiti e i difetti strutturali che la stanno soffocando e a causa dei quali oggi è così invisa ad una consistente fetta dei suoi cittadini, larga e trasversale in quanto presente in tutti gli stati membri.
Nella legittima contestazione del presente, tuttavia, c’è un confine di buonsenso che non dovrebbe mai esser varcato. E quando una Marine Le Pen, o un Matteo Salvini, nelle loro cacofoniche campagne elettorali, invocano la chiusura delle frontiere nazionali, dicono e propongono un qualcosa di estremamente pericoloso.
Perché quando superiamo in treno la frontiera tra Germania e Francia, quello che non vediamo sono i cadaveri dei milioni di giovani europei che vi hanno perso la vita appena lo scorso secolo, e per motivazioni che ebbero il loro punto di partenza proprio lì, dal nazionalismo, dalla tanto ventilata “chiusura delle frontiere”.
E se oggi quella stessa frontiera la percorriamo comodamente seduti su un vagone riscaldato, senza nemmeno il passaporto in tasca, dobbiamo essere tutti consapevoli che questa è stata una faticosa vittoria della civiltà, da cui è imperativo non fare neanche un passo indietro.
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