Immigrazione e asilo politico: o l’Europa cresce, oppure muore

25 Maggio 2015

L’opinione pubblica italiana è indignata per la riluttanza che i soci europei stanno mostrando nell’impegnarsi nei confronti dell’emergenza migratoria nel Mediterraneo. Da piu’ parti si parla di “fine dell’Unione Europea”, come del resto si fa da qualche anno anche in rapporto con i problemi legati alla crisi finanziaria e le difficolta’ europee nel superarli.

Di certo, i problemi ci sono, e l’attuale rifiuto iniziale ad accettare un sistema di riparto per quote delle richieste d’asilo non può essere considerato un buon sintomo di coesione. Così come non lo sono le accuse incrociate, spesso intrise di semplificazioni e luoghi comuni, sulle situazioni fiscali e  i debitorie dei paesi “viziosi” rispetto a queli “virtuosi” che ci hanno deliziato in questi anni. Se l’Unione Europea mostra segni di esaurimento, non è tanto per questioni economiche (nonostante tutto, i nostri indicatori economici e sociali sono ancora migliori rispetto a buona parte del resto del mondo), quanto per la constatata incapacità di superare pregiudizi e luoghi comuni che sembravano cosa solo del passato e che la crisi economica ha riproposto con forza.

In realtà, il fenomeno migratorio è di enorme complessità e non esistono soluzioni miracolose: chi dice averle sta solo vendendo fumo, questa non è una questione che si risolve agendo “con le palle” o con misure sbrigative. Sia il “dentro tutti” che il “fuori tutti” sono utopici e impraticabili.

L’Unione Europea non sta ricevendo flussi straordinari d’immigranti: nonostante siano sotto la luce dei riflettori, il numero di non europei che cerca di stabilirsi nel nostro territorio è molto ridotto rispetto ai milioni che si rifugiano in zone limitrofe a conflitti, come Tunisia o Turchia. Solo un numero minimo di loro cerca di stabilirsi in Europa, e non cerca di farlo nei paesi con probabilità limitate d’impiego, come quelli del Sud Europa, ma piuttosto in quelli del Nord. I numeri in questo senso sono chiari, e spiegano in parte la pressione che i paesi riceventi esercitano su quelli frontalieri affinchè controllino i flussi in entrata (visto che controlli interni all’Unione Europea non esistono più dopo Schengen).

Il fatto che il controllo delle frontiere esterne dell’Unione sia competenza esclusiva degli Stati non è un caso, ma il frutto di precise scelte in quel senso condivise anche dal nostro paese. Ricordiamo che i governi Berlusconi rifiutarono sempre sdegnosamente l’intervento di Frontex e mai chiesero fondi europei di supporto per quello scopo. Ora la situazione è precipitata anche per i cambiamenti intervenuti in Nord Africa. Se l’Unione Europea non è ancora divenuta una federazione è per precisa scelta dei governi, che da una parte rifiutano di cedere deleghe, per poi criticare per la loro passività istituzioni che…tali deleghe non hanno. Certamente un fenomeno paradossale e mal spiegato alle opinioni pubbliche.

Non c’è dubbio che l’Unione Europea dovrà darsi regole più stringenti e chiare in materia di politica migratoria comune (che finora NON HANNO voluto delegare) e i nostri paesi dovranno decidersi ad affrontare una volta per tutte in maniera razionale (bullismo, celodurismo e buonismo non ne sono esempi) la questione dell’inevitabile dimensione multiculturale dell’Europa del XXI secolo.

Adesso è in gioco la ripartizione delle persone richiedenti asilo, da non confondersi con l’immigrazione di carattere economico. L’asilo non è un’opzione da cui i nostri paesi possano esimersi: le persone che vengono da zone in conflitto devono essere accolte e precise regole esistono in materia d’identificazione e rimpatri.

Spesso s’ignora la complessità nell’applicazione di tali convenzioni internazionali: non si puo’ espellere una persona di cui non si abbia un’identificazione e una nazionalità chiara (è spesso il caso) nè “spedirla” in un paese che non l’accolga (mediante l’emisisone di documenti di viaggio validi). Anche in caso d’identificazione, l’espulsione è procedimento costoso (due poliziotti devono accompagnare l’espulso fino al paese d’origine).

Se molti paesi non hanno accettato il piano presentato dalla Commissione per dividersi i richiedenti asilo è per motivazioni diverse, ma non inganniamoci: l’integrazione europea è sempre andata avanti così, a strappi e tentativi, fino a trovare un equilibrio. Esiste nell’opinione pubblica un falso concetto che assimila l’Europa a una “famiglia”, nella quale le scelte vengono o dovrebbero essere effettuate nell’interesse comune. Se questo è l’obiettivo verso cui come europei dobbiamo tendere, sia chiaro che non ci siamo ancora. Passato il momento del dopoguerra, nel quale la visione dei padri fondatori, sconvolta dalla tragedia del conflitto, fece prevalere per un momenti visioni comuni, l’Europa di oggi è sommatoria d’interessi nazionali veri o presunti più che il risultato d’una visione strategica comune.

La difficoltà riscontrata nel definire una dottrina di sicurezza comune europea ne è una dimostrazione chiara, molti paesi non si sentono implicati nel problema mediterraneo e si rifugiano dietro la situazione legale attuale, che loro stesso hanno creato.

Ci piaccia o no, l’Unione Europea è ancora espressione del diritto internazionale, nel quale non si regala un centimetro a nessuno e non quello di famiglia, nel quale si tutela in primo luogo l’interesse comune. Gli europeisti, e io tra loro, avevano creduto che l’integrazione avesse rotto definitivamente lo schema del diritto internazionale da cui l’UE è nata, ma la condivisione della sovranità sta mostrando i suoi limiti, e questo dovrebbe essere motivo di seria riflessione.

Sia la gestione della crisi finanziaria che le attuali tensioni in materia d’immigrazione hanno messo allo scoperto i nervi e le contraddizioni non risolte in seno all’Unione; sappiamo che insieme sarebbe mglio, ma non siamo disposti a pagarne le conseguenze in materia di sovranità e costi, pretendendo sempre che sia qualcun altro a farlo. Cosa che ovviamente non succede, perchè i dirimpettai pensano lo stesso.

La realtà innegabile della distruzione portata dalla seconda guerra mondiale portò a cambiare d’approccio, e in conseguenza noi europei abbiamo goduto di sessant’anni di pace e prosperità senza precedenti. La sfida della globalizzazione, coniugata sia in termini di crisi finanziaria (le nostre società non hanno più la produttività necessaria per mantenere sistemi di protezione che credevamo garantiti) che di flussi migratori in entrata (reali o percepiti che essi siano) ha messo alla prova il nostro modello e dobbiamo ripensarlo. Credo che l’illusione del “small is beautiful” sia solo tale,  e che la via comune europea sia l’unica praticabile, per quanto difficile sembri adesso.

La storia dell’integrazione  europea ci suggerisce che una soluzione sulle quote si troverà. Ma non è sufficiente di per sè: è necessario avviare un dibattito sull’Europa multirazziale e multireligosa, e non ostinarci a rifugiarci in una dimensione nazionale, per poi pretendere che nei momenti di difficoltà qualcuno venga a toglierci le castagne dal fuoco.

Chi scrive già da un paio d’anni proponeva l’uso degli strumenti integrati della PESC (Politica Esterna e di Sicurezza Comune) europea, che esistono ma si è riluttanti a usare (perchè costano, come se il non usarli non fosse ancora più caro) che solo adesso sono stati finalmente considerati. Solo l’integrazione di strumenti diversi puo’ rispondere a un fenomeno di tale complessità: l’uso di mezzi militari di pattugliamento e prevenzione, unito a quelli di controllo delle frontiere, che sono strumenti di polizia e non militari; il rafforzamento della cooperazione coi paesi rivieraschi e d’origine in materia d’identificazione e controllo del fenomeno alla radice (vi assicuro che questa è un’attività d’eccezionale complessità, perchè non puoi emettere tu documenti in nome d’un altro paese); la lotta comune alle reti criminali, sfida difficile in paesi in conflitto e che tocca nervi sensibili in paesi nei quali lo stato di diritto non è solido e la corruzione diffusa.

La soluzione non  è dietro l’angolo, e la cosa più grave è che questa crisi abbia fatto emergere più divisioni che visioni comuni. Ma è in buona parte l’Europa che abbiamo voluto sin qui. Sta a noi cittadini esigere dai nostri governi di più se non ci sta bene. Mi auguro che avremo la maturità di costringerli a andare in quella direzione, anzichè credere nei miraggi alla “io speriamo che me la cavo”.

 

 

 

TAG: europa, immigrazione, pesc
CAT: Politiche comunitarie

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