È tempo di costruire una Cultura del rischio

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4 Marzo 2020

Quando si tratta di vivere in emergenza, è come se ci venisse improvvisamente tolta una benda nera davanti agli occhi. E’ come se ci rendessimo conto di essere stati talmente ciechi da divenire ostaggi della categoria dell’impensabile. Tutti gli esseri umani, del resto, sono incapaci di pensare gli eventi insoliti.

Non sappiamo pensarci in maniera cosciente e responsabile nel momento in cui abitiamo un’epoca difficile, ci muoviamo su un territorio fragile, non percepiamo mai i rischi e la vulnerabilità sociale alla quale siamo esposti. Pensiamo solo nella maniera in cui il nostro pensiero ci garantisce sicurezza, normalità, difesa delle nostre convinzioni, regolarità delle nostre esistenze.

Eppure, il mondo non solo ci circonda, ma ci costruisce da parte a parte, e lo fa sulla base delle scelte che abbiamo fatto prima. Delle nostre scelte.

Quando la percezione di una minaccia non è ben chiara, oppure è molto distante dai nostri schemi mentali, a determinarsi è l’effetto dell’impotenza appresa. Quell’incapacità di reazione che non sia altro se non dettata dal panico, in quanto mancante di altre e più logiche soluzioni introiettate in precedenza.

Del resto, la nostra cultura non ci ha insegnato che se nulla abbiamo messo in salvo, tutto si distruggerà. Al contrario, abbiamo appreso a non muovere nulla nella convinzione errata della fissa e immutata regolarità delle nostre esistenze.

Il punto focale resta, infatti, proprio questo: la mancanza di percezione della propria responsabilità nei confronti di un disastro ed anche di un’emergenza connessa al disastro. Abbiamo imparato ad essere impotenti di fronte alle nostre stesse scelte di vita. E’ questa la paralisi che ci attanaglia oggi.

Se si tratta di un disastro ambientale, e a travolgerci è la forza impetuosa della natura, come nel caso di un’alluvione, ad esempio, allora tutto appare incontrollabile, al punto da non vederne più l’azione causata dal potere politico o economico che ha generato il danno. Viene percepito come più grave ma come non controllabile e dunque l’atteggiamento è di arrendevolezza e stupore, spaesamento. Come se ciò che sta accadendo non sia connesso all’azione dell’uomo, ma ancora ad un concetto di natura matrigna inarrestabile. E’ arrivato il disastro all’improvviso, ma non era prevedibile perché mai realmente immaginato e sempre confinato in un tempo non precisato, comunque lontano, o dentro l’idea generata da finzioni letterarie o cinematografiche.

Se tutto si è distrutto non è perché non si è compiuta alcuna azione di protezione prima, o proprio perché ci siamo messi da soli in pericolo con le nostre azioni distruttive dell’ambiente che ci circonda. No. Se tutto si è distrutto, noi innanzitutto non ci crediamo. Non avrebbe dovuto capitare a noi.

Ma perché non ci accorgiamo di essere in pericolo?

Se non mi ritengo responsabile di un disastro, se lo vedo lontano nel tempo e nello spazio, allora non riesco neppure a percepire che possa accadere. Dunque, non posso accorgermi di essere in pericolo.

Me ne accorgo dopo, ma non ho mai costruito gli strumenti culturali per frenare lo spaesamento identitario che ne conseguirà e che mi travolgerà.

E’ soltanto quando lo spazio del quotidiano collassa, come nel caso dell’emergenza dovuta al coronavirus, che me ne rendo conto nel mentre in cui tutto accade. Ne avverto e mi fa paura la processualità dinamica in costante divenire e l’impossibilità di prevederne la fine in tempi certi.

Avverto il pericolo non solo come ben presente, ma anche come permeante tutte le abitudini e i significati condivisi con la collettività che frequento e che fonda la mia stessa identità.

E’ il perturbante disequilibrio dei simboli e delle abitudini personali che manda in tilt la comunità e genera panico. Perché l’uomo nulla è senza i suoi simboli ed i significati connessi a quei simboli che egli stesso ha creato.

La spesa al supermercato, con quel forsennato svuotare gli scaffali, è sì panico irrefrenabile e paura incontrollabile, ma è anche necessità di ancorarsi con tutte le forze ad un’identità che è quella dell’uomo moderno che frequenta il centro commerciale il sabato pomeriggio e lì si riconosce. Per questo motivo l’emergenza del coronavirus viene colta nel momento in cui si attivano misure di sicurezza che vanno non soltanto a cambiare le abitudini (le restrizioni imposte alla palestra, al cinema, al bar, al ristorante…) ma soprattutto a minare nelle fondamenta le basi sulle quali abbiamo costruito la nostra stessa identità in quest’epoca.

A farci paura è la stazione ferroviaria semivuota. Perché la nostra identità è quella di persone che viaggiano, che si connettono, che si muovono spesso in ampi spazi ma in tempi compressi e sempre regolari ed uguali.

A tranquillizzarci non è tanto lo scaffale del supermercato in sé, ma la nostra possibilità di essere uomini che possono scegliere cosa acquistare su una variegata gamma di prodotti sempre a disposizione. E questa possibilità è fortemente connessa con la nostra identità, molto più che con la nostra domanda di sicurezza e protezione.

Lo spazio dell’emergenza deve essere, quindi, anche e soprattutto lo spazio in cui si deve attivare una costruzione culturale e dinamica senza precedenti, che passi attraverso l’educazione al senso del rischio e della vulnerabilità sociale. Si tratta proprio di costruire nella nostra comunità, nel nostro Paese, una vera e propria Cultura del rischio.

Perché l’emergenza non dura soltanto il tempo dell’emergenza.

E’ il momento, in realtà, in cui è necessaria la presa di coscienza delle implicazioni locali e globali dell’evento, rispetto alla valutazione della continuità e della rottura con i legami precedenti, all’interno dell’area colpita ma anche circa le relazioni che il territorio aveva intessuto con altri territori. Legami politici, economici, turistici, identitari.

C’è uno spazio politico, generato dal caos dell’emergenza in cui tutto può avvenire: dal riconsolidamento dei simboli dominanti, alla costruzione di nuove relazioni, con l’emergere di nuovi assetti sociali e di nuove forme associative.

E’ il momento in cui tutto può sembrare utile, ma non tutto lo è. E’ il momento delle scelte necessarie a colmare lo spazio vuoto che si è venuto a creare (vuoto di identità e vuoto nel senso letterale del termine: piazze, stazioni, locali vuoti etc.) per avviare, anche giustificate dall’emergenza in atto, politiche supportate da una maggiore progettualità nei confronti dei bisogni e dei diritti delle popolazioni colpite e delle categorie più fragili.

Si deve uscire da quello stato mentale che ci vedeva ostaggi dell’impensabile e imparare a pensare il rischio, accompagnando i gruppi sociali che abitano il tempo dell’emergenza verso nuovi percorsi di esistenza. E di resistenza a ciò che accadrà. Più responsabili, in quanto più consapevoli, però.

TAG: comunità, coronavirus, Cultura, disastro, emergenza, persone, politica, rischio, sanità, società, territorio
CAT: Psicologia, Scienze sociali

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