Mi sono perso la Giornata Mondiale della Risata. E non ci trovo nulla da ridere

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11 Maggio 2020

Mi accontenterei di risate, anche registrate.

Laugh track ovunque, come se non ci fosse un domani, come sottofondo animato per i nostri talk show casalinghi ma anche per le nostre digressioni apocalittiche al supermercato e durante le file alla posta, dove diventiamo detrattori, giudici, presidenti del Consiglio, allenatori della Nazionale, papi & cardinali, talent scout e chef.

L’ingegnere del suono americano Charles Douglass quando inventa le risate registrate ignora che diventeranno una consuetudine nella programmazione mainstream degli Stati Uniti. Accompagneranno generazioni nella costruzione dell’assenso, persino del divertimento a comando e nell’autoconsolazione patriottica.

La risata ha poteri curativi importanti e non ha effetti collaterali. Anzi, parrebbe migliorare la circolazione e l’ossigenazione del sangue e la produzione di endorfine. Il cortisolo si riduce sensibilmente a supporto, persino, delle difese immunitarie.

Patch Adams, fondatore del Gesundheit Institute e ideatore della clownterapia, sosteneva che la buona salute è questione di risate.

Mark Twain sosteneva che “contro l’assalto delle risate, nulla può resistere”.

In effetti, con dodici muscoli si altera a piacimento l’intero pattern espressivo umano, diventiamo indocili, mettiamo in crisi certezze altrui e pungoliamo l’establishment.

E per fare il broncio? Ne occorrono settantadue, decisamente antieconomico.

Ho scoperto per caso la Giornata Mondiale della risata che, in questo sfortunato 2020, è caduta il 3 maggio, nel lockdown generale, dove c’era ben poco di cui ridere – direte voi, diranno gli altri.

Eppure, entrando a passi felpati nella Fase 2, con tutte le cautele del caso, si sente l’esigenza (quasi fisica) di abbandonare i toni apocalittici e lo psicodramma collettivo della nostra società dello spettacolo.

Non tanto per la volontà (quasi persino voluttà) di ‘buttarla di caciara’, quanto per ridimensionare il mood declinista, catastrofista, immanentista dei mesi precedenti l’arrivo del virus. Dove la sintassi si destreggiava con armi di distruzioni di massa.

Alle nostre latitudini, dov’è che si apprendono stile & prestanza nel confronto pubblico? Nei talk show – ovviamente! – dove l’infotainment e il politainment sono governati da media logic e dallo share; dove gli ‘elettori fluttuanti’ sono pane demoscopico irrinunciabile, sorpresi nelle loro tentazioni di voyeurismo e tanaturismo.

Care ‘very important person’ del momento (mi riferisco ai fluttuanti citati), la balistica del priming si collega al processo di agenda building: fatevene una ragione, è il destino di tutti noi!

Adeguati o inadatti, preparati o ignoranti, attenti o distratti, siamo entrati nei mondi di Carta Bianca, Agorà, Ottoemezzo, L’aria che tira, La Gabbia, Piazza Pulita, Virus, Matrix, Annozero, Ballarò, Porta-a-Porta, Milano Italia, Profondo Nord, Omnibus Servizio Pubblico, DiMartedì, Che tempo che fa (quanti ne dimentico tra presenti e passati?) e da lì non ne siamo più usciti.

Ricordate ‘Faccia a faccia’, il rotocalco televisivo condotto da Enzo Biagi o ‘Tribuna elettorale’ o ancora ‘Bontà loro’, condotto da Maurizio Costanzo?

Vanaglorismo? Macché.

Bourdieu parlava di censura invisibile e di violenza simbolica, i più intemperanti di dumbing down, i più incarogniti di effetti Manchurian, io (sommessamente) di distrazioni incaute di massa.

Gli elettori fluttuanti hanno potuto contare su piazze televisive dove farsene una ragione, per poi trovare conferma nei bias della cultura digitale.

Figurarsi il 47% dei cosiddetti analfabetici funzionali: pane per i loro denti affilati.

Ma torniamo ai cosiddetti political debate shows che imperversano più tonici che mai.

Ma è così dappertutto? Per esempio, nella tv britannica? Uno solo e si chiama “Question Time”.

“Sì, ma loro sono algidi, mentre noi italiani siamo focosi, urlatori, passionali”.

Sia. Ma se con i canali tv nazionali presenti sulle principali piattaforme (nel 2017 erano 361), che fanno capo a 59 editori, si riuscisse a trovare un accordo di massima su una pausa da ricostruzione che riveda il linguaggio, le tassonomie, il mood generale, non potremmo riuscire a sotterrare l’ascia di guerra per ritrovare gli anticorpi di una comunicazione razionale e meno emotiva?

Non consolatoria e nemmeno intimista.

Pervicacemente contro la ciarla e l’avventurismo, in vista di un futuro che riscatti i dolori individuali e collettivi, prendendoci tutti insieme la responsabilità della ripartenza.

Con il ricorso alle energie migliori del bel Paese, della nostra provincia, alle esperienze delle nuove professioni o dei nuovi lavori, con l’ottimismo tipico di chi deve scrollarsi di dosso calcinacci, polvere e morchie varie.

Con l’utilizzo della retorica – stavolta necessaria – del ‘tutti-per-uno’.

In mancanza di ciò: autopunizione, rinuncia alla mediazione e alla interpretazione di ciò che accade attorno a noi. Silenzio.

E dunque il necessario ricorso alle risate. Per iniettare dosi omeopatiche di endorfine nelle relazioni ordinarie, in quelle istituzionali, nella politica locale, nella stampa locale.

Risate pericolose, irriverenti, destabilizzanti, cauterizzanti, come quelle descritte da Arthur Schopenhauer ne ‘Il mondo come volontà e rappresentazione’ o quelle di Friedrich Nietzsche ne ‘La gaia scienza’.

Altrimenti?

Avrà avuto ragione Michel Houellebecq, a proposito di questo virus banale, senza qualità: “Non ci risveglieremo, dopo il lockdown, in un nuovo mondo; sarà lo stesso, ma un po’ peggio».

 

TAG: futuro dell'informazione, informazione, talk show
CAT: Qualità della vita

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