Tanti saluti dall’Altrovunque

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28 Dicembre 2020

Il portiere, a calcetto, a volte esce in soccorso dei compagni, allo scopo di creare superiorità numerica. Ma se sbaglia il passaggio, allora sono dolori. Sicché ero solo davanti alla porta sguarnita, ed ho avuto un istante di assoluta consapevolezza. Questa è l’ultima volta della mia vita. Tra due giorni mi trasferisco in Svizzera, il calcetto finisce qui, questo è l’ultimo gol. Un’esperienza deludente, poco più di un attimo, una stretta alla gola, e poi la vita che ti ghermisce e ti trasporta oltre, perché anche al calcetto si può rinunciare. C’è tanto altro.

Da allora in poi mi è capitato ancora ed ancora di vivere consapevolmente l’ultima volta. A volte in modo estremamente doloroso, come il giorno che mi esautorarono dalla Wochenzeitung, con l’accusa di aver scritto un testo errato ed offensivo, che non era mio, ma di uno cui stavo sulle scatole, tale Stefan Keller, di cui persino la morte ha dimenticato il nome. Capintesta di una minuscolissima cospirazione, il cui scopo era di cacciare via l’ultimo giornalista d’inchiesta di un settimanale che voleva divenire agiato commento socialdemocratico, e che da allora gode di un’irrilevanza sempiterna, avendo mandato via tutti “quelli bravi”, che invece sono ancora oggi giornalisti affermati o, come me, lussuosi bofonchioni post-moralisti. Il tradimento di quel progetto giornalistico che sentivo mio, per cui avevo tanto lottato, rischiato e studiato, è stata una ferita che ha fatto male per oltre un decennio. L’ultima giornata in redazione ero soprattutto stordito. Stavo così male che lasciai per sempre Zurigo.

Da sinistra: mia sorella Elisabetta, mio fratello Carlo, mia sorella Sara, mio fratello Fabio, mio padre, io – Lido dei Gigli, autunno 1977

L’ultima volta che ho potuto stringere mia figlia bambina. Il matrimonio era da anni una facciata cadente e sfrigolante di rabbia, concluso quando, finalmente, Adriana ha trovato qualcuno che, oltre al sesso, le offrisse anche agiatezza, sicurezza e smettere di lavorare. Sapeva benissimo che fossi felice che finisse, e quindi mi punì portandomi via, con un processo vomitevole (come sono tutti i processi di divorzio con bimbi in mezzo), la dolcissima Valentina, 8 anni, con cui da quasi tre anni vivevo felicemente da ragazzo single – io a Locarno, mia moglie a Zurigo. Tornò apposta per ferire me e rovinare la vita della ragazzina, che ancora ne porta le stimmate. Ed io, come vedete, se ripenso a quell’ultima notte di dolore, sono ancora arrabbiato. Valentina l’ho rincontrata quasi dieci anni dopo, ed era un’altra persona. Quell’ultima volta fu dolore puro, laminato d’acciaio e rovente, ruggine nella gola, fuoco sulle gote.

L’ultima volta ad aver goduto dell’orgasmo di una donna, la cosa più bella ed appagante che ci sia al mondo. Una turista tedesca capitata nel Rione Monti, annoiata e malinconica, che non si aspettava di incontrare un burbanzoso romanetto che parlasse fluentemente tedesco. È stata una notte importante, ma alla fine avevo mal di schiena, mi sentivo distrutto, in realtà non avevo più il sostegno salvifico del testosterone, che ti spinge in avanti quando il cuore ed il cervello cominciano a deviare il corso dell’attenzione. Mi sono detto: questa è l’ultima volta, e così è stato. Ma in questo caso è stata un’occasione gloriosa, calda ed appiccicosa come tutte le gesta eroiche, intima e beffarda, complice e serena. Almeno stavolta si è chiuso in bellezza, pensai allora, e penso tuttora.

Lido dei Gigli, estate 1976

Le “ultime volte consapevoli”, con il passare degli anni, aumentano in modo preoccupante – anche se, a volte, si tratta davvero di cose cui si rinuncia volentieri. L’ultima volta sul palco: con Leonardo, Jole ed il tastierista di Giorgio Gaber, nello splendido Teatro dei Concordi di Roccastrada, cantando appunto Gaber: “Quando è moda è moda”, e “I reduci”. Non ero commosso, ero grato. Grato alla vita che mi concedeva un bis inimmaginabile, il compimento di un’intera mancata carriera, un solipsismo ideale e perfetto. Voce gonfia di gioia, mai di malinconia. Uno dei momenti più belli da ricordare.

In tedesco si dice che una certa persona, o una certa situazione, non è più “il mio cantiere” (meine Baustelle). Vuol dire che non ci corrisponde più, ne siamo divenuti estranei, o forse abbiamo solo ora capito che lo fossimo sempre stati. Come nella canzone cantata da Thomas Wenzel: “Fino al nove sei ok, solo al dieci ko”. Puoi reggere una situazione terribile fino ad un certo punto. Un attimo prima eri dentro, un attimo dopo ne sei fuori. È quello che mi è accaduto in questi giorni, in un contesto di cui, per pudore, non intendo parlare. Ma è stata l’ultima volta – terminata con un’alba di pioggia ed un senso di alttrovezza, o di altrovità, se non addirittura di altrovunque. Perché la vita va avanti, e ci sono nuove cose da fare, da scoprire, da realizzare, da imparare. L’ultima volta, per quanto dolorosa, è una necessità improrogabile: si fa spazio per il nuovo. Un giorno, quel nuovo sarà la morte, e sarà l’ultima sfida, quella per cui nessuno è mai preparato. Ma fino ad allora il mio cuore mi trascina fino al prossimo “adesso”, pieno di gorgogliante e canina aspettativa, come il Mattley dei cartoni animati, che digrigna i denti e reclama “Medaglia! Medaglia! Medaglia!”

Mattley in volo, a caccia del Piccione

L’adagio popolare recita: quando si chiude una porta, si spalanca un portone. Sono fortunato. Non ho bisogno di portoni. Mi basta una fessura, per infilarmi, perché la consapevolezza di tutte le ultime volte mi rende forte e sicuro. Perché si sopravvive a cose e persone che pensavi fossero insostituibili, mentre è la vita l’unica grande e stupenda compagna, che anche nelle tragedie non tradisce mai.

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CAT: Qualità della vita, relazioni

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