Laura Vaccaro, pm: «Aumentano le denunce ma il cammino è ancora lungo»

25 Novembre 2022

Le donne devono prendere consapevolezza che nel rapporto di coppia non può essere tollerata nessuna forma di violenza, nessuna.

La “Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne” è una ricorrenza istituita dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, tramite la risoluzione numero 54/134 del 17 dicembre 1999. L’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha designato il 25 novembre come data della ricorrenza e ha invitato i governi, le organizzazioni internazionali e le ONG a organizzare in quel giorno attività volte a sensibilizzare l’opinione pubblica sul problema della violenza contro le donne. È del 19 luglio 2019 la legge n. 69, nota come “Codice Rosso”, una legge a tutela delle donne e dei soggetti deboli che subiscono violenze, atti persecutori e maltrattamenti. Di violenza nei confronti delle donne ne abbiamo parlato con la dottoressa Laura Vaccaro, magistrato già Procuratore della Repubblica per i minori a Caltanissetta e già Sostituto Procuratore della Direzione Investigativa Antimafia di Palermo, che si è insediata nel dicembre 2020 in qualità di Procuratore aggiunto della Repubblica di Palermo come coordinatore del IV° Dipartimento che si occupa violenza di genere, violenza domestica e fasce deboli.

Iniziamo facendo il punto della situazione…

«La situazione a Palermo rispecchia i dati statistici che già sono stati rilevati, proprio nei giorni scorsi è stato presentato un report da parte della Polizia di Stato, e che evidenziano che il trend è in linea con quanto accade nel resto d’Italia: c’è un numero elevato di fascicoli, o vicende processuali e investigative, che possono essere riconducibili al c.d. “Codice Rosso”. Siamo in presenza di numeri elevatissimi di maltrattamenti in famiglia, di fenomeni di stalking, di diffusione di immagini a sfondo sessuale senza consenso. In generale siamo in presenza, complessivamente, di moltissimi reati appunto riconducibili al “Codice Rosso”, quei reati che sono spia, campanello d’allarme, quali le lesioni in contesto familiare o in contesto di relazioni affettive giunte al punto di rottura».

E per quanto riguarda i femminicidi?

«A Palermo, nel corso dell’anno, questo 2022, non abbiamo avuto femminicidi ma sono aumentate le condotte di violenza di cui parlavo poc’anzi e, sempre di più, sono realizzate in ambito domestico e registrano come vittime le donne e come autori del reato, almeno per il 99% dei casi, gli uomini. Che si tratti di una violenza di genere non c’è dubbio. Sono però aumentate le denunce, segno che il “Codice Rosso” ha trasformato il modo di agire della magistratura e della Polizia Giudiziaria, ha introdotto una tempistica urgente e ha introdotto, anche nell’ambito dell’organizzazione giudiziaria, una serie di accorgimenti che hanno come riferimento la tutela della vittima. Credo che questo elemento sia percepito nelle vittime e, quindi, abbiamo registrato un aumento delle denunce. I dati post-pandemici riflettevano un fatto, quello che le donne erano state costrette all’interno delle loro abitazioni. Per molti di noi il rimanere chiusi in casa è stato, comunque, una sensazione di sicurezza, rifugio e conforto ma invece per molte donne questo ha rappresentato la tragedia, quella di essere costrette e vivere in un ambiente che non era quello della sicurezza ma, al contrario, il luogo della violenza, del maltrattamento. Subito dopo il lockdown del 2020 c’è stato un aumento dei casi, sicuramente riconducibile alla costrizione vissuta in quel periodo».

E oggi?

«Oggi l’aumento delle denunce ritengo sia riconducibile proprio ad un maggiore senso di fiducia nei confronti delle Istituzioni. È sicuramente cambiato l’atteggiamento delle Forze dell’Ordine. Quando entrai in magistratura, c’era l’abitudine, da parte delle Forze dell’Ordine, della bonaria ricomposizione della lite, di indurre a una riflessione. Oggi, fortunatamente, questi atteggiamenti non esistono più e le condotte sintomatiche che sono descritte dalle vittime, l’uomo dedito alla violenza sistematica o all’abuso di alcool e stupefacenti, sono “condotte sentinella” che sono immediatamente attenzionate dalle Forze dell’Ordine e da un Ufficio della Procura che, lo dico con soddisfazione, ha un’organizzazione interna eccezionale. Pensi che quest’ufficio ha un Dipartimento, quello che si occupa di “Violenza domestica e tutela delle fasce deboli”, che si occupa di questa fattispecie di reati con undici magistrati, numero maggiore a quello della composizione media degli altri Dipartimenti che vede sette, otto magistrati come organico. Questo ci permette di lavorare in maniera più efficiente sia dal punto di vista organizzativo sia dal punto di vista della tempistica dell’intervento.

Lo scorso anno, subito dopo il mio arrivo, abbiamo attivato una segreteria centralizzata che tratta in maniera specifica il “Codice Rosso”. Anche grazie alle misure organizzative adottate dagli altri uffici, abbiamo una tempistica che ci porta, nel giro di 24, massimo 48 ore, di avere la misura cautelare richiesta. Grazie a questo la vittima è messa nelle condizioni non solo di denunciare ma anche di essere tutelata sia nel percorso di denuncia ma anche in quello successivo, perché le scelte investigative che facciamo, dall’incidente probatorio in poi, sono scelte che tentano di evitare successivi contatti tra la vittima e l’indagato e permettono di tutelare la vittima anche durante il percorso giudiziario. Siamo lontani da quanto succedeva nel passato, quando in ambito processuale difese e pubblici ministeri esaminavano la vittima che era costretta a subire un’impostazione quasi colpevolistica, ricevendo domande relative a come fosse vestita o a quali fossero le sue abitudini sessuali. Pensi però che, nel corso di un delicatissimo processo celebrato nel 2021 nel quale rappresentai l’accusa nei confronti un medico che aveva commesso abusi sessuali a diverse pazienti, in parecchie occasioni ho dovuto sollecitare il giudice opponendomi alle modalità con cui venivano poste le domande, perché invasive rispetto alla sfera intima delle persone offese e le loro abitudini sessuali, come se l’abuso subìto fosse di minor entità perché la vittima aveva già avuto esperienze sessuali o era avvezza a certi approcci. Domande che devono essere considerate inammissibili, inaccettabili e inconcepibili ma che, ancora oggi, dimostrano che, all’interno del processo, c’è un approccio difensivo e linguistico che non va assolutamente accettato ma rivisitato e rivisto. La scelta di non sottoporre le vittime allo stress terribile dell’esame dibattimentale, quindi quella di ricorrere all’incidente probatorio, è uno degli strumenti che il codice ci mette a disposizione per tutelare sempre di più le vittime. Questa serie di accorgimenti ha fatto sì che le donne abbiano percepito uno Stato più vicino, più attento anche grazie a una maggiore specializzazione da parte della Polizia Giudiziaria e dei magistrati che rende meno difficile alle vittime di raccontare, a un estraneo, le violenze subite. Questo non significa che non ci sia null’altro da fare sia in ambito processuale sia in ambito preventivo ma, sicuramente, il cammino avviato ha avuto la priorità di mettere al centro la vittima e attivato un processo dal quale non si può tornare indietro».

C’è, però, un grande problema di narrazione per quanto riguarda l’informazione al pubblico del reato, perché spesso non è rispettato il ruolo della vittima…

«Il problema della narrazione non riguarda soltanto il campo dell’informazione ma si riflette anche all’interno di quello giudiziario in cui, credo, non ci siamo ancora liberati dal retaggio di considerare la donna come colei che, in fondo, può avere provocato la violenza subita. Anche davanti all’evento più tragico, l’uccisione della donna, non ci si rassegna all’idea di raccontare il fatto come se fosse il frutto di scelte effettuate dalla vittima anche attraverso preferenze linguistiche come “Esasperato dalla separazione” o “Disperato dalla scelta della moglie di lasciarlo”. Lo stesso avviene nelle scelte di tipo difensivo come quella che, troppo spesso troviamo all’interno di un processo di femminicidio, che dipinge l’autore del reato, il femminicida, come colui che agisce preso da un raptus: “La rabbia della separazione”, “La rabbia del tradimento”. Si crea così una narrazione alla quale è difficile sottrarsi. Dobbiamo anche aggiungere il fatto che, spesso, nei processi per femminicidio, non è riconosciuta l’aggravante della premeditazione anche quando, come in un procedimento che ho seguito direttamente, ci sono circostanze di minacce precedenti al presunto amante della donna, di minacce di morte indirette rivolte ai parenti della donna, di una premeditazione dimostrata dal fatto che l’arma del delitto era un oggetto portato a casa dal luogo di lavoro. È privilegiata una narrazione che vede l’ipotesi del raptus come scusante ma, in realtà, il femminicidio, dal punto di vista linguistico, spiega sia che è stata uccisa una donna sia perché è stata uccisa».

Qui entrano in gioco anche retaggi culturali sul ruolo della donna…

«Assolutamente sì. In un processo che ho seguito personalmente l’omicida, dopo essersi consegnato alle Forze dell’Ordine, dichiarò che la donna non preparava più i pasti, non puliva più la casa dimostrando che la donna non seguiva più quella che, nel suo immaginario, doveva essere la condizione della donna nel contesto familiare e quindi ha ritenuto necessario che scattasse la punizione. Tutto questo è attuale e testimonia una narrazione inaccettabile sulla quale dobbiamo necessariamente intervenire perché rappresenta un dato di fatto».

Come possiamo intervenire?

«Questo atteggiamento può essere modificato attraverso un’attenta vigilanza su come ognuno di noi svolge la sua professione, di chi si occupa di informazione, di chi svolge attività requirente e giudicante. Sotto il profilo delle scelte linguistiche è necessaria una profonda riflessione e inoltre ritengo che, oggi, non sia più pensabile che la gelosia o i motivi passionali, che come spesso accade portano al femminicidio, non possono essere ritenuti futili motivi. Non possiamo più permettere, come successe nei processi di Tina Lagostena Bassi, che i difensori dicano in aula ”Avete voluto la parità e ora dovete accettare la violenza sessuale”. Non possiamo più ammettere valutazioni sul modo di vestire, sulle abitudini sessuali e sulle scelte della vittima. Spesso l’autore del reato, l’uomo, è descritto come colui che era dedito alla famiglia, anche se in realtà era assente, ma lo si ritiene dedito alla famiglia solo per il fatto che “portava a casa” lo stipendio».

Siamo ancora condizionati culturalmente dal concetto di “delitto d’onore”?

«Ritengo di sì. Anche se il reato di “Delitto d’onore” è scomparso dalla norma in quanto abrogato il 5 agosto 1981, ritengo che non sia scomparso da alcune categorie mentali e concettuali che ci troviamo dinanzi quando parliamo di violenza nei confronti delle donne. Si tratta di un retaggio culturale dal quale dobbiamo assolutamente allontanarci. Oggi, già solo la sussistenza della gelosia non può essere una sorta di alibi e non può esserlo il concetto di raptus perché troppo spesso si parla di “tempesta emotiva” mentre è dimostrato che il femminicidio sia l’epilogo di una serie di condotte di violenza che già ci sono e che hanno proprio come atto finale il femminicidio».

A suo giudizio è necessaria una nuova spinta legislativa o abbiamo un problema di interpretazione di quella in essere?

«Quando si affrontano questo tipo di tematiche è necessario tenere conto che i reati di violenza domestica, per la vittima, hanno un aspetto particolare perché non vengono posti in essere da un assalitore ignoto ma da colui con cui c’è, o c’è stato, un legame affettivo significativo, e risulta difficile percepirsi, quindi di essere, vittima di reato, elemento che oggettivamente ritarda l’intervento di tutela. C’è sicuramente molto da fare sotto il profilo preventivo ed è sicuramente necessario ripensare alle pene che sono comminate. A volte, come nel caso dello stalking, siamo in presenza di un reato per il quale la pena della reclusione non è assolutamente sufficiente perché, appena usciti dal carcere, gli stalkers violano immediatamente la misura cautelare affievolita che è applicata poiché c’è una visione della donna come possesso. È sicuramente necessaria più attenzione da parte del legislatore nei confronti della tutela delle vittime, in tema di realizzazione di strutture in grado di accompagnare le donne sia durante lo svelamento dell’abuso o delle violenze subite sia durante la fase processuale e di strutture che accompagnino il periodo sanzionatorio che non prevedano solamente la pena carceraria ma sanzioni e pene che possano avere possibilità rieducative del reo.

La maggior parte dei reati di maltrattamenti che sono denunciati avviene in ambienti familiari da parte di soggetti che hanno patologie psichiatriche o che le maturano in conseguenza di abuso di stupefacenti, dato cresciuto drammaticamente, o di alcolici. Spesso sono gli stessi genitori che denunciano i propri figli che si rivelano essere soggetti violenti a seguito di abuso di sostanze stupefacenti o alcoliche. L’unica possibilità è di accoglierli nelle REMS, le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, ma in Italia sono pochissime e in Sicilia addirittura inesistenti, nonostante siano previste dall’art. 3-ter del decreto-legge 22 dicembre 2011, n. 211 convertito in legge 17 febbraio 2012, n. 9. È chiaro che per noi risulta impossibile tutelare le vittime dei reati di maltrattamento da parte di questi soggetti e ciò determina un vuoto di tutela gravissimo e pericoloso. Ritengo che, su questo fronte, il legislatore potrebbe fare molto incidendo maggiormente sulle scelte amministrative ed esecutive che non sono nel nostro potere di magistrati».

Aumentare l’informazione all’interno delle scuole è importante?

«Importantissimo e, quando ci invitano, andiamo sempre, anche se le occasioni sino ad ora sono state poche. Nei diversi confronti che abbiamo avuto, molte ragazze ci chiedono perché non possiamo pensare alla gelosia come segno di amore. Questo denota che lo scatto culturale da fare è enorme per riuscire a far capire che la fiducia è segno di amore non la gelosia e quindi quanto sia importante l’attività informativa».

TAG: codice rosso, donna, femminicidio, reato, violenza
CAT: Questioni di genere

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