La notizia di una nuova querelle legata a una statua controversa ha calamitato l’attenzione della stampa, tanto da guadagnarsi spazio sul The New York Times. C’è da osservare come, da tempo, la scultura non godesse di così tanta attenzione, e in effetti per essere una lingua morta, come la definì Arturo Martini oltre mezzo secolo fa, si dimostra ancora oggi capace di far discutere.
Questa volta il dibattito ruota attorno a una statua dedicata alla figura mitologica della Medusa, collocata al centro del Collect Pond Park di New York, proprio accanto all’edificio sede della Corte Suprema che ha condannato Harvey Weinstein. L’opera dell’artista argentino Luciano Garbati raffigura la Gorgone, con una spada in una mano e la testa di Perseo nell’altra. In questo caso, l’artista ha scelto di rappresentare Medusa come una donna e non come un mostro, trasformandola in una eroina degna di in un film della Marvel e ribaltando la narrazione mitologica che la vede vittima della sopraffazione e dell’ira divina.
Non è la prima volta che il mito di Medusa viene riletto, ribaltandone la prospettiva, come nel citatissimo The Laugh of the Medusa, testo del 1975 della scrittrice e attivista Hélène Cixous. Ma il fascino della Gorgone sembra inesauribile e la scultura, risalente in realtà al 2008, è improvvisamente diventata un simbolo di rivendicazione femminista, grazie anche ai social media che ne hanno viralizzato le immagini. L’autore ha accolto positivamente (e con un pizzico di opportunismo, viene da pensare) l’inaspettata l’attenzione rivolta alla sua opera. Dopo che le foto hanno cominciato a circolare sul web, non sono mancate le critiche, nello specifico riguardo al fatto che l’opera sia stata realizzata da un uomo, bianco, che ha modellato una figura dalla bellezza canonica, reiterando una normatività fuori tempo massimo. Altri hanno osservato che la Medusa avrebbe dovuto sorreggere la testa decollata di Poseidone, divinità del mare e autore del ratto, e non quella dell’eroe. Fu infatti a seguito dello stupro nel tempio da parte di Poseidone che la dea Atena decise di punire Medusa, trasformandola nel celebre mostro dalla testa coronata di serpenti ed esiliandola, facendole così scontare la profanazione del luogo sacro. Sempre secondo il mito fu poi Perseo a ucciderla e decapitarla, usandone la testa per pietrificare il mostro marino che minacciava Andromeda, destinata al sacrificio. Altri ancora hanno osservato che l’immagine di una Medusa che si vendica con un atto così violento offre la sponda a chi taccia le femministe di misandrìa e, invece di aiutare la causa del #MeToo, potrebbe danneggiarla.
Nel caso della Medusa di Garbati c’è però una critica fondamentale che invece è passata in secondo piano, ed è che la scultura è brutta. Il focus è stato spostato dal discorso estetico a quello politico, dimenticando che questo supposto simbolo di riscatto è prima di tutto una forma plastica e come tale andrebbe valutata. Si tratta infatti di un’opera ordinaria nell’esecuzione, che si rifà a un canone figurativo svuotato di ogni senso, senza alcuna traccia di radicalità, malgrado l’artista dichiari senza imbarazzo di essersi ispirato al Perseo con la testa di Medusa di Benvenuto Cellini (1545 – 1554), capolavoro manierista collocato presso la Loggia dei Lanzi di Piazza della Signoria, a Firenze. Qui non resta traccia della ricchezza intrinseca del mito e della potenza della Medusa originaria, figura che da sempre oscilla tra orrore e bellezza, incarnandone il misterioso e inscindibile legame. Se il tema del “male gaze” ha una sua rilevanza, il punto non è che l’artista abbia rappresentato una giovane donna avvenente, quanto che abbia cancellato la carica perturbante del mito originale. Riaffermare la libertà di ogni artista non è pleonastico e Garbati aveva tutto il diritto di realizzare la sua opera, nella forma che riteneva opportuna, altrimenti si profilerebbe quella deriva pericolosa per la quale ogni artista sarebbe titolato infine a occuparsi solo di autobiografia o a parlare del proprio ombelico, vincolato da genere, etnia, estrazione sociale e via dicendo. Piuttosto, il problema risiede in una committenza pubblica che troppo spesso si dimostra incapace di distinguere un opera d’arte da un manufatto mediocre.
“Niente giustifica la sopravvivenza della scultura nel mondo moderno. Però si ricorrerà a lei ugualmente nelle circostanze solenni e per gli usi commemorativi”, scriveva Martini nel 1945. Così è: fuori dalle fiere e dalle gallerie dove i collezionisti acquistano i loro pezzi, la scultura trova spazio solo come elemento di decorazione urbana – per lo più attraverso la proliferazione di orrori che coronano rotonde e piazzette della provincia – o come monumento: il risultato degli interventi di arte pubblica è quasi sempre sbagliato, frutto di una visione necrofila dell’arte. La Medusa di New York discende da un’idea della scultura ingenua e trova giustificazione solo perché accidentalmente incappa nella patente nobiliare di “arte politica” da parte di chi la fraintende, senza capire che si tratta in realtà di un elemento di arredo urbano, inesorabilmente kitsch e decisamente “cringe”. Considerando secoli e secoli di storia dell’arte, dovremmo avere ormai dato per assodato il fatto che l’arte non offra risposte, non sia uno slogan pubblicitario, non affermi proclami né verità assolute. Ridurla a commento del contemporaneo è un fallimento che produce opere inerti, destinate a invecchiare con la stessa velocità con cui invecchia un quotidiano. Walter Siti scrive che “quando la letteratura punta all’utilità, tradisce sé stessa”. Vale anche per l’arte, quando si accolla il disgraziato compito di essere pedagogica.
Tradire le storie, rielaborarle, riscriverle è un processo straordinariamente fertile, ma per farlo non si può abdicare al problema della forma, accontentandosi di riempire di significato ciò che di significato è privo in origine, altrimenti si opera in una logica di meme, non di arte. Fanno bene le donne a esigere monumenti che ne celebrino la storia e le artiste a rivendicare lo spazio che meritano. Credo però che il movimento femminista e le donne tutte – e anche la loro legittima rabbia – meritino di essere rappresentate attraverso forme intelligenti, complesse e problematiche, non accontentandosi di innocui soprammobili scambiati per opere d’arte, in virtù di un malinteso ideologico.
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