Utero in affitto, fino a che punto il desiderio di un figlio è un diritto?

13 Agosto 2015

Per molte coppie è l’ultima spiaggia. Ci arrivano dopo aver tentato vari cicli di fecondazione assistita, dopo aborti spontanei ripetuti o interventi non riusciti che hanno compromesso per sempre l’utero della donna. Per altre coppie, quelle composte da due uomini gay, è invece l’unica e sola opportunità, se si esclude l’adozione, che in Italia è preclusa agli omosessuali, e tale resterà anche quando verrà approvata la legge sulle unioni civili (unica eccezione: l’adozione del figlio del partner). Il ricorso alla maternità surrogata, più note come “utero in affitto”, per diventare genitori è una pratica che consiste nel trovare una donna disposta, dietro compenso, a portare avanti una gravidanza di un figlio che non sarà mai suo: i genitori saranno infatti coloro che le pagano ogni spesa medica legata alla gestazione e al parto, oltre a una cifra che varia moltissimo secondo le consuetudini del Paese dove vive la madre surrogata.

In nessun caso il bambino avrà del materiale genetico in comune con la donna che l’ha portato in grembo: sarà invece il frutto dell’unione dell’ovulo di una donatrice (quasi sempre) con lo sperma dell’uomo della coppia (quasi sempre). La maternità surrogata è vietata in Italia, ma è legale in vari Paesi al mondo, anche se in alcuni di essi, come l’India e la Thailandia, questa possibilità è stata sospesa dopo alcuni scandali legati allo sfruttamento di donne in situazione di estremo disagio o ai capricci di occidentali che usufruivano di uteri in affitto come se fossero al supermercato.

«I Paesi in cui le cose sono fatte legittimamente e bene ci sono, certo non sono quelli dell’estremo est asiatico. Nessuna coppia di buon senso dovrebbe andare là per una maternità surrogata, non in Vietnam, non in Nepal, né in Thailandia o in India», ci dice l’avvocato Ezio Menzione che ha lo studio a Pisa e si occupa da anni di garantire queste coppie dai problemi giuridici che possono incontrare al loro ritorno in Italia. «I luoghi migliori da questo punto di vista sono senz’altro gli Stati Uniti e il Canada, dove, tramite agenzia, si fanno contratti che non lasciano nulla al caso e dove, almeno in alcuni Stati, si accettano anche single e coppie gay. È tutto regolamentato nel dettaglio, anche il comportamento che deve tenere la surrogata durante i nove mesi di gestazione. Inoltre, un bambino che nasce negli Usa o in Canada, dove esiste lo ius soli, ha cittadinanza americana e le questioni di stato che lo riguardano sono disciplinate dalla legge americana. Il suo status di figlio di quella coppia è in pratica intoccabile». Tanta sicurezza però si paga. Il costo di una maternità surrogata negli Usa costa tra i 110 e i 120 mila dollari, anche se le agenzie a cui si rivolgono attori e cantanti arrivano a chiederne anche 200 mila. Di queste cifre alla madre surrogata arrivano sui 30-40 mila dollari.

«Anche le agenzie che operano nei Paesi dell’Europa dell’Est, Russia, Ucraina, Georgia, garantiscono che le cose sono fatte bene, anche se i contratti sono più semplici di quelli americani. In quelle nazioni, inoltre, non si accettano coppie gay né single e il ritorno in Italia pone più problemi». Un bambino nato nei Paesi dell’Est, infatti, non ha la loro cittadinanza, perché là non c’è lo ius soli, ma non ha nemmeno quella italiana. In Ucraina viene registrato come figlio dei due genitori che l’hanno voluto perché la “madre portante”, la donna cioè che assume l’obbligo di provvedere alla gestazione e al parto,  firma un atto di rinuncia. Il certificato di nascita in Ucraina però non basta, perché il bambino non è ancora iscritto allo stato civile italiano: bisogna passare attraverso l’ambasciata ucraina.

«Qui sorgono i problemi perché da 5-6 anni l’ambasciata dà il consenso alla coppia di rientrare in Italia con il bambino, però segnala sia alla procura sia allo stato civile che con ogni probabilità c’è dietro una maternità surrogata», spiega Menzione. «Negli ultimi anni, queste coppie hanno dovuto affrontare processi penali per alterazione di stato, che è un reato molto grave. Va detto che però ormai la prevalenza è quella di una giurisprudenza favorevole. Io stesso ho ottenuto decine di sentenze di assoluzione o proscioglimento. In ogni caso non è mai successo che separassero il bambino dai genitori».

Ma chi sono queste ragazze che affittano il loro corpo per mettere alla luce i figli di qualcun altro? «In Nord America di solito sono donne piccolo borghesi, che spesso non lavorano perché hanno già altri figli e magari hanno il marito lontano: sono molto disponibili, per esempio, le mogli di soldati che vivono in aree militari e che per integrare il budget familiare portano avanti questo progetto. Non c’è la fila delle surrogate, in America, ci sono lunghe liste di attesa, anche di qualche mese», ci dice Menzione. «In Ucraina ci sono più donne a disposizione perché essendo una società rurale, tramite agenzia, si può sempre trovare una contadina che si presta a questo scopo. Se abbassi la provenienza sociale, è ovvio che ci sia più abbondanza. In India per esempio per 5 mila euro se ne trovano tantissime». Sì, ma come vengono trattate queste ultime? Spesso sono ricoverate in case comuni dove possono concentrarsi esclusivamente sulla gestazione.

Appare evidente, a questo punto, il nodo sensibile di un dibattito sull’utero in affitto che in Italia è ancora molto marginale, impegnati come siamo stati negli ultimi tempi a litigare sulla fecondazione eterologa, ma che altrove ha dato vita a veri e propri movimenti di opinione, ad appelli infuocati pro o contro questa pratica.

È uno scontro che non conosce colori né ideologie: su questo tema, ferventi cattolici e noti intellettuali di sinistra si sono trovati dalla stessa parte della barricata. La domanda è: fino a che punto è lecito spingersi pur di soddisfare il proprio desiderio di avere un figlio? Il fatto che diventare genitori sia in qualche modo un traguardo naturale per ogni uomo e ogni donna implica che possa essere considerato addirittura un diritto laddove la natura si inceppa e ci sono grandi problemi di infertilità? O laddove gli aspiranti genitori formino una coppia di uomini omosessuali, quindi impossibilitati a procreare?

Michel Onfray, filosofo francese anarchico e ateo, ha firmato un appello #StopSurrogacyNow (www.stopsurrogacynow.com) dove si chiede «ai governi delle nazioni del mondo e ai capi della comunità internazionale di lavorare insieme per mettere fine a tale pratica e fermare subito l’utero in affitto». In un’intervista rilasciata alla rivista cattolica Vita, Onfray dice: «Non c’è modo migliore per trasformare in merce tanto il corpo della donna, quanto la vita del bambino. Senza parlare dello sperma e dell’ovulo dei genitori, assimilati a bulloni e viti di una macchina senz’anima. Ma qui, abbiamo a che fare con il vivente e il vivente non è una merce, un prodotto monetizzabile. Dei poveri non vogliamo più nemmeno la forza lavoro, ci bastano le macchine. Ai poveri non resta che diventare essi stessi macchine, affittando o vendendo il proprio corpo, parti di quel corpo o i suoi prodotti derivati».

Non c’è dubbio, infatti, che la maternità surrogata sia una possibilità solo per i ricchi e che le donne che affittano l’utero siano in una situazione di bisogno, più o meno grave. Si tratta di un diritto per pochi, insomma, fondato sul bisogno di tanti. Lo denunciava a modo suo Aldo Busi sul Corriere il marzo scorso: «Voi, cantanti, stilisti e ormai anche droghieri, prefetti e borghesi gay, sapete chi sono queste donne da voi degradate a bestie produttrici di placenta, sapete dove stanno e si dibattono forse insensibili e immobili, andate a prenderle e portatele via da lì, e fa niente se sono in un ospedale psichiatrico, in una prigione o in un resort di lusso, fategli vedere questi figli tuttora più loro che vostri, metteteglieli in grembo, che si tocchino, si abbraccino e, se queste donne hanno bisogno di cure, è vostro dovere provvedervi al massimo livello economico e affettivo. Una volta fatto ciò, potrete rispondere al sorriso di questi neonati con un sorriso mondato finalmente dalla cattiva coscienza che io almeno presupporrei in me se fossi al vostro posto, perché qualche dovuto passaggio nella maturazione sentimentale e civile bisogna proprio averlo saltato per essere dei padri e degli educatori felici sulla pelle di madri alienate, lontane, allontanate, vive e morte a sé: vive in vitro». Il fatto che parole così crude arrivino da uno scrittore gay dichiarato, sicuramente impegnato nella battaglia per i diritti degli omosessuali, la dice lunga della trasversalità di un rifiuto che sulle prime sembrerebbe più appannaggio dei cattolici.

Dice Michel Onfry: «Per opporsi ci sono molte ragioni e molto diverse tra loro. I cristiani lo fanno in nome di altri valori rispetto ai miei: difendono la famiglia tradizionale e il matrimonio eterosessuale, la famiglia monogamica e la sessualità improntata sulla procreazione e la proibizione dell’aborto. Io no. D’altronde, l’omosessualità, il matrimonio omosessuale, l’adozione da parte di omosessuali, che io difendo, sono spesso condannati con il pretesto che sarebbero contro natura. Non posso sottoscrivere questa posizione, ovviamente. Ma poi, ci sono cristiani che dicono il giusto e lottano per il rifiuto della mercificazione del corpo. Che cosa dovrei dire di loro? Che sbagliano? No, questo manicheismo produce molti danni al pensiero».

In Italia, intanto, tutto tace, non si espongono i politici né gli intellettuali laici, a parte qualche grido isolato come quello di Aldo Busi. O quello di Marina Terragni sul suo blog su IoDonna, dove però la giornalista mette in un unico calderone pratiche diversissime come l’ovodonazione e l’utero in affitto. Per chiudere il cerchio, visto che di storie reali stiamo parlando, di uomini e donne veri, con i loro desideri e le loro vicende spesso dolorose, abbiamo chiesto un parere all’avvocato Menzione, che decine di queste coppie le ha conosciute di persona e che non può che sostenerne i sogni. «Io auspico che anche in Italia possa esserci una legge che, insieme all’eterologa, consenta di reperire madri surrogate all’interno del perimetro nazionale, previo rimborso del sacrificio che fanno. Se poi tutto fosse pagato dalla struttura sanitaria nazionale, sarebbe ancora meglio. In fin dei conti, si tratta di un metodo per venire incontro alle coppie sterili, lo stesso criterio che ha spinto la Corte costituzionale a dire che l’eterologa non può essere vietata perché è un rimedio clinico per la sterilità. È vero che mettere a disposizione il proprio corpo per un’intera gravidanza è più impegnativo che donare un ovulo, ma non so se è più impegnativo che donare un rene, cosa possibile e legale. Probabilmente no. Certo, tutto dovrebbe essere regolato da contratti e accordi molto dettagliati, che tutelino genitori, bambino e surrogata».

La palla, insomma, sia che si sia a favore sia che si sia contro la maternità surrogata, non può che passare al legislatore, ovunque e per chiunque: e se in Paesi come l’India, il Nepal o la Thailandia sta ai loro governi per lo meno proteggere le donne in miseria dal vorace sfruttamento del loro corpo da parte di intermediari senza scrupoli – e qualcosa in questo senso si sta muovendo –, da noi andrebbe regolamentata quella che di fatto è già una realtà e che riguarda ormai centinaia di coppie ogni anno.

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Nella foto di copertina, una pubblicità di Surrogate Alternatives, rivolta alle ricerca di donne che, dietro compenso (fino a 50mila dollari), provvedano alla gestazione e al parto per conto di un’altra coppia. 

TAG: aldo busi, maternità surrogata, Michel Onfry, utero in affitto
CAT: Questioni di genere, salute e benessere

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