Nonostante i ripetuti sforzi beoti, Natale sopravviverà

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5 Dicembre 2015

La “Favola di Natale” di Giovannino Guareschi raccontava il miracolo di una festa che riusciva a sopravvivere alla guerra, alla prigionia e ai reticoli di un campo di lavoro tedesco dove l’autore parmense era stato rinchiuso dopo l’8 settembre 1943: se il Natale è uscito quindi vivo dal secondo conflitto mondiale e dalla ferocia del male nazista che purtroppo si ripropone nelle gesta dei sheep shaggers dell’Isis, grazie anche alla sacralità depurata dalla retorica con la quale Guareschi lo ha celebrato, lasciandoci alcune delle pagine più belle della letteratura italiana, allora non patirà troppo questa lunga vigilia che lo precede.

Si potrebbe cadere con il discorso sulle polemiche che da Rozzano rimbalzano in ogni angolo d’Italia. Ci si potrebbe soffermare a contare quanti presepi orneranno effettivamente le case e le scuole. Potremmo spegnere tutti i rumori del vivere quotidiano per godere dell’armonia e della serenità dei canti natalizi. Potremmo, infine, schierarci da una parte e dell’altra, prendere posizione nello stesso modo in cui lo stiamo facendo di fronte ai fatti di Parigi, vale a dire alzando la mano per esprimere i nostri distinguo, i nostri “ma” e “però” – “Sia invece il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno”, consiglierà il Bambino diventato ormai grande rivolgendosi alla folla nel Discorso della montagna.

Meglio evitare, come ci suggerisce d’altronde l’essenza stessa del Natale e scusate, cari beoti all’ascolto, egregi razionalisti che osannate la ragione e la laicità, se vi si recherà offesa, ma questo argomento non fa per voi.

Le popolazioni celtiche lo hanno inciso nelle pietre. Ha ispirato Eraclito, Omero (Odissea 133, 137) e Virgilio (VI libro dell’Eneide). In Egitto era la nascita del dio Horus, figlio di Osiride. In Grecia quella di Bacco, Ercole e Adone. Al Nord di Freyr, figlio di Odino. Zarathustra in Azerbaigian, il dio guerriero Mithra in Persia, detto il Salvatore. I Romani festeggiavano il Dies Natalis Solis Invicti, come parte delle Saturnalia, le celebrazioni dedicate a Saturno, dio dell’età dell’oro. E’ il solstizio d’inverno, il 21 dicembre, quando la luce del giorno è ai minimi e l’oscurità avanza: ma è proprio a questo punto che il buio inizia a ritirarsi, mentre la luminosità riconquista terreno.

Nell’attesa che torni il tepore del sole, che la natura si risvegli dal letargo e che le foglie riempiano nuovamente i rami degli alberi, rimangono a vegliare i pini sempreverdi, impassibili all’inverno e dunque simbolo per i nostri antenati da abbellire con mele e ostie: il frutto del peccato e il corpo di Gesù, Colui fatto bambino per salvare l’umanità (“Cristo luce del mondo! Rendiamo grazie a Dio” è il giubilo della notte di Pasqua). Un’usanza nata nel Medioevo – vi avevamo avvertiti, fedeli della ragione, che queste righe avrebbero potuto ingozzarvi – che ci insegna come il Natale sia un’occasione per rinascere e respirare il nuovo a pieni polmoni.

Il Cristianesimo, pace all’anima di chi lo nega, è l’elemento costitutivo della nostra identità perché si è infilato nelle culture che hanno compattato l’Europa come elemento geografico e storico dopo la fine dell’impero romano: i Galli, i Celti, i Germani, i Wends, i Veneti.

Ma a storie come queste si preferisce con tutta probabilità la battuta cinematografica di Riccardo Garrone, “anche questo Natale se lo semo levato dalle palle”, con la pancia gonfia e l’abbiocco dietro l’angolo, la noia alimentata dalla corsa al consumismo accelerato e però pure indignato. Siamo fatti con lo stampino, ci riconosciamo solo grazie al codice fiscale, marchiati come marchiavano ai tempi di Guareschi.

La massima vanziniana targata 1983 ha la misura giusta per essere contenuta in un tweet di 140 caratteri, misura ormai standard di ragionamento per chi detta la linea: l’opinione pubblica che fa chiasso a colpi di tastiera e il frastuono è così confuso e fastidioso da zittire la maggioranza che, pacata e vergognandosene, si emoziona di fronte ad un presepio, ad “Astro del ciel”, alla solidità dei legami familiari, alla poesia recitata dai figli con ingenua cantilena, guardandosi bene dal rispondere ai saccenti illuminati con la caciara della politica che, Anno Domini 2015, è riuscita ad impossessarsi a pieni mani dell’atmosfera di festa che bussa alla porta (eppure saremmo in pieno rigurgito populista che vuole la politica fuori da tutto o forse ci stavamo semplicemente sbagliando), perché il silenzio aiuta a far risuonare il vuoto delle parole dei beoti di cui sopra, campioni di morale.

Un amico che non ha Fede, ma coltiva d’altra parte una logica lineare che gli ha impedito di buttare il cervello all’ammasso della religione atea e senza identità, mi ha scritto, qualche anno fa: “Il Natale è questo (…): per chi Crede è la Nascita, per chi non (ma vorrebbe, aggiungo), la Rinascita”.

Poi ci sono i beoti e li riconosci subito: in parte ignoranti, in parte invidiosi, le due cose si sommano. Auguri anche a loro, che non corrisponderanno, ma pazienza: magari onorano più gli animali dell’uomo, riconoscono l’asino, non il Bambino. Impareranno, chissà.

TAG: cristianesimo, Giovannino Guareschi, La favola di Natale, Natale, solstizio d'inverno
CAT: Religione

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