Il vescovo che faceva troppo
Il video con cui ha annunciato le sue dimissioni da vescovo di Ascoli Piceno nemmeno doveva uscire. Ha cominciato a circolare sulle chat di Whatsapp nella notte tra mercoledì 28 e giovedì 29 ottobre 2020, mentre la diocesi perdeva tempo a inviare messaggi in cui si definiva «sotto embargo» la fatale comunicazione con cui monsignor Giovanni D’Ercole fa un passo indietro e afferma che andrà a chiudersi in un monastero per dedicarsi alla preghiera.
«Lo scorso 13 ottobre ho presentato le dimissioni da vescovo di Ascoli Piceno nelle mani di Papa Francesco – dice D’Ercole –. Lo ringrazio, perché, accettando in anticipo la mia rinuncia, mi ha dato la possibilità di realizzare una scelta su cui meditavo da tanto tempo e che avrei voluto concretizzare al compimento dei miei 75 anni: tornare alle origini del mio sacerdozio, in Africa, tra “i più poveri tra i poveri”, come direbbe Santa Teresa di Calcutta».
Poi, ovviamente, ci sono le contingenze, il terremoto e il lockdown, che lo ha «però logorato» e ha suscitato in lui «domande più profonde sul mio ruolo di pastore».
Fine carriera, dunque, e già c’è un retroscena piuttosto scontato ma in qualche modo verosimile: D’Ercole avrebbe preso molto male il fatto di non essere stato nominato cardinale. Sembrava dovesse diventarlo nel 2018 e non se ne fece nulla, poi il posto gli è stato soffiato da padre Raniero Cantalamessa, frate cappuccino, originario della provincia di Ascoli. La goccia che ha fatto traboccare il vaso, forse.
La carriera di D’Ercole lasciava presagire, in effetti, un avvenire di livello nelle gerarchie cattoliche, ma probabilmente qualche incidente di percorso di troppo si è rivelato in fin dei conti decisivo.
Giornalista, vicedirettore della sala stampa della Santa Sede nominato da Wojtyla, poi dirigente nella segreteria di stato vaticana, capo della prima sezione degli Affari Generali, collaboratore di Raidue, Avvenire, Radio Maria, ospite di trasmissioni televisive, direttore della rivista «Don Orione Oggi». Una voce molto ascoltata dai fedeli, indubbiamente, e in effetti D’Ercole ha sempre dimostrato di saperci fare a telecamere accese. Il 14 novembre del 2009 diviene vescovo a L’Aquila, ruolo che ha ricoperto fino al 12 aprile del 2014, quando arriva il trasferimento ad Ascoli.
Il prete dei terremoti, dicono con una certa dose di malignità i nemici giurati.
È l’8 novembre del 2011 quando D’Ercole viene iscritto nel registro degli indagati dalla Procura di L’Aquila nell’ambito di un’inchiesta per tentata truffa ai danni dello Stato da parte della Fondazione Abruzzo Solidarietà e Sviluppo. I carabinieri avevano scovato infatti una serie di manovre per mettere le mani sopra dodici milioni di euro messi a disposizione dal Dipartimento per le politiche della famiglia della presidenza del Consiglio. Sui giornali si parlava di questi soldi come dei «fondi Giovanardi», dal nome dell’allora sottosegretario alla Famiglia del governo Berlusconi. D’Ercole, ad ogni buon conto, sarà assolto da queste accuse. Lui non si è mai particolarmente scomposto davanti agli attacchi, anzi, ha sempre mantenuto la calma serafica dell’uomo di fede, quasi la certezza incrollabile che prima o poi ci sarebbe arrivato il colpo di scena divino a risolvere tutti i guai. Un pensiero che D’Ercole, evidentemente, deve aver fatto anche quando, nel 2010, fu Bertolaso a finire nell’occhio del ciclone giudiziario. «In queste ore di particolare sofferenza, siamo spiritualmente vicini a Bertolaso e auspichiamo che possa tornare, al più presto, a svolgere il suo servizio così utile al paese», si legge in una nota diramata l’11 febbraio 2010 da D’Ercole e dall’arcivescovo Giuseppe Molianri. Un’assoluzione in piena regola nonché un attestato di «piena solidarietà a Guido Bertolaso, ricordando con gratitudine quanto realizzato per dare sollievo alle popolazioni colpite dal terribile sisma del 6 aprile scorso».
Qualche tempo dopo, però, a D’Ercole viene un’altra intuizione molto politica: diventare soggetto attuatore per il restauro delle chiese distrutte dal terremoto. L’arcivescovo di L’Aquila, monsignor Giuseppe Petrocchi, è dubbioso: secondo lui, la Curia non avrebbe le forze e gli strumenti per gestire un flusso di denaro che si annuncia imponente, nell’ordine delle decine di milioni di euro. Essere un soggetto attuatore vuol dire gestire direttamente gli appalti senza dover perdere tempo con le gare. La vicenda emerge tra le pieghe dell’inchiesta che, il 17 giugno del 2014, porta all’arresto di cinque persone, tra cui l’ingegnere Marchigiano Luciano Marchetti, un passato nella cerchia dei più stretti collaboratori di Bertolaso. L’accusa per lui è di aver ottenuto denaro per assegnare i lavori di ricostruzione, il suo ruolo nella banda era centrale: l’intermediario, l’uomo dai mille contatti, a Roma come negli uffici regionali e nei vari enti. Per esempio, nell’ordinanza di arresto del gip, si legge di come avrebbe provato a fare pressioni su un funzionario su una funzionaria regionale abruzzese per cercare di modificare il Decreto Abruzzo a suo vantaggio, ovvero con l’obiettivo di far diventare la Curia di L’Aquila soggetto attuatore negli appalti per il restauro delle chiese. A un certo punto di questa storia, sempre secondo il giudice, la funzionaria abruzzese avrebbe «preso l’incarico dal vescovo ausiliario, monsignor Giovanni D’Ercole, di consegnare due buste contenenti la proposta di modifica normativa: una diretta al presidente del Consiglio, Enrico Letta, l’altra diretta a Gianni Letta».
Ad Ascoli sono due le storie che lo hanno catapultato al centro del ciclone: il caso Del Vecchio e quello di don Alberto Bastoni.
Nel settembre del 2017 viene fuori che nella chiesa consacrata di Santo Stefano a Quinzano di Force, in provincia di Ascoli Piceno, c’è un santone che si chiama Christian Del Vecchio e che sostiene di avere contatti molto ravvicinati con la Beatissima Vergine. La prima apparizione sarebbe datata 22 gennaio 2013, e da allora il veggente sarebbe in grado trasudare olio «extravergine al 100%» dalle mani. Gli annunci corrono sul web e se ne interessano personaggi come padre Amorth e i vescovi Basile Tapsoba e Andrea Gemma, entrambi esorcisti. Diverse testimonianze riferiscono di donazioni molto generose da parte degli adepti al «messaggero» De Vecchio, che in cambio mette a disposizioni le sue doti taumaturgiche. E qualche opinione del calibro «Israele=Sionismo=Satanismo=Inciviltà», come ha scritto una volta su Facebook. C’è aria di truffa, anche se è vero che le persone con i propri beni possono fare quello che vogliono, in ogni caso la faccenda fa discutere parecchio e, a un certo punto, la diocesi di Ascoli si sente in dovere di intervenire. D’Ercole è in Portogallo – pellegrino a Fatima – quando fa arrivare alla stampa una nota in cui si afferma che Del Vecchio e la sua associazione laicale chiamata Amarlis pagano regolare affitto per l’utilizzo della canonica di Quinzano. D’Ercole vigila sulla situazione «avendo ricevuto diverse segnalazioni sia positive sia negative». Lo scandalo però monta e Del Vecchio decide di abbandonare la provincia di Ascoli per tornare a Roma. Durerà poco, nella primavera del 2018 eccolo di nuovo a Quinzano. E D’Ercole commenta: «Secondo le ‘Norme per procedere nel discernimento di presunte apparizioni e rivelazioni’, emanate dalla Congregazione per la Dottrina della Fede, e seguendo la comune prassi ecclesiale, il Sig. Del Vecchio è stato sottoposto ad una indagine canonica specificamente istruita nel pieno rispetto delle procedure previste in ‘subiecta materia’. L’inchiesta canonica ha condotto una vigile e prudente analisi della vita e dell’attività del Sig. Del Vecchio Cristian e si è chiusa in questa prima fase con il pronunciamento ‘pro nunc nihil obstare’ (per ora nulla osta), non essendo emersi ad oggi elementi (atti o fatti) contrari alla disciplina della religione cattolica e/o violazioni di precetti morali, civili e penali».
Più complessa, e in qualche modo anche più drammatica, la vicenda di don Alberto Bastoni, viceparroco della chiesa del Carmine, in centro ad Ascoli. All’inizio del giugno del 2020, il sacerdote è stato allontanato dalla Diocesi perché, dicono dalla diocesi, «forse anche in conseguenza del lockdown è caduto in una depressione maggiore unipolare che gli ha provocato un grave squilibrio mentale, umano e umorale che si è manifestato in comportamenti che hanno attirato un’indagine da parte delle autorità competenti». Quali indagini? La procura di Ascoli parla di detenzione e cessione di cocaina, quella di Ancona di «detenzione e scambio di materiale pedopornografico, frequentazione di siti e chat contenenti immagini e video di minorenni ritratti in atteggiamenti a sfondo sessuale». Don Bastoni era arrivato ad Ascoli grazie a D’Ercole, che aveva deciso di dargli fiducia dopo che, nel 2012, allora parroco a Collevalenza (Perugia) capitò in mezzo a un’altra storia di cocaina.
Agli ascolani don D’Ercole è piaciuto solo in parte durante la sua attività pastorale. Da una parte c’è chi ha apprezzato molto le sue uscite al confine con la demagogia di destra – fu lui, d’altra parte, il primo a parlare di «dittatura» da parte del governo Conte durante il lockdown della primavera 2020, quando vennero imposte limitazioni alle chiese per le messe e i funerali –, dall’altra c’è chi non ha mai gradito troppo il protagonismo del vescovo, troppo spesso finito nelle pagine d’inchiesta dei giornali.
Adesso il passo indietro, almeno per il momento. Le vie del signore, d’altra parte, sono infinite.
2 Commenti
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Come sempre quando si dà credibilità alla superstizone religosa, compaiono santoni, i rappresentanti della superstizione e credenti che donano soldi, che mai vengono dati in beneficenza, se non in minima parte.
I missionari, c’è da aggiungere, vanno in paesi stranieri ad evangelizzare, poiché qui i poveri sono già tutti cattolicizzati; l’aiuto è portato solamente se strumentale alla evangelizzazione (vieni a scuola, ma dici le preghiere e senti il catechismo, etc).
Se a questo si aggiunge che i rappresentanti della superstizione sono umanissimi, ecco spiegati gli imbrogli finanziari continui, da 2000 anni (e comunque meglio che i soldi che il prete ruba vengano spesi in divertimenti, anziché in cattedrali ed altre forme di pubblicità alla superstizione cattolica, che poi portano a maggiore credibilità ed adepti creduloni)