Dov’è dunque Dio?
E io sentivo in me una voce che gli rispondeva:
Dov’è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca…
Elie Wiesel, La notte
Tra i simboli che ci portiamo dentro c’è sicuramente anche quello della notte. La notte è il tempo del buio, quando non si vede nulla. È il tempo in cui da bambini abbiamo immaginato presenze inquietanti, inafferrabili. La notte è il tempo del silenzio, quando ogni cosa fa più rumore e desta sospetto. La notte è il tempo in cui aspettiamo una luce che non arriva.
La liturgia del Giovedì santo anticipa già la grande notte di Pasqua e ci propone tre letture che hanno a che fare con la notte: la notte in cui Dio passa in Egitto per strappare dalla schiavitù, la notte in cui Gesù spezzò il pane, ricordata da Paolo, la notte che inizia nel Vangelo di Giovani con la cena durante la quale Gesù lava i piedi ai discepoli. Dio attraversa le nostre notti.
Innanzitutto la notte dell’umanità. È la notte del caos, come quella in cui Dio inizia la creazione: dove tutto era informe. Dio attraversa la notte del popolo d’Israele rassegnato alla sua schiavitù. È in quella notte che l’agnello viene consumato ed è in quella notte che il sangue dell’agnello è versato per segnare un’appartenenza. È in quella notte che Dio passa. La liberazione avviene mentre eravamo ancora schiavi in Egitto.
Quel rituale diventa un memoriale: occorre tornare a quella notte per rivivere l’esperienza della liberazione. Gli ebrei delle generazioni successive non potranno ovviamente rivivere l’esperienza del passaggio del mar Rosso, ma potranno rivivere l’esperienza della notte in cui viene mangiato l’agnello: nell’ultima cena in Egitto la liberazione è già compiuta. E si compirà ancora, ogni volta che quella cena sarà ripetuta.
Paradossalmente, per essere liberati, non possiamo fare a meno di ritornare a quella notte, non solo con le sue speranze, ma anche con le sue angosce. Possiamo fare l’esperienza della liberazione, solo se diventiamo consapevoli del Faraone che oggi ci tiene schiavi: la liberazione avviene sempre dentro una schiavitù.
Solo collocando il gesto e le parole di Gesù nel contesto della cena della Pasqua ebraica, possiamo coglierne pienamente il significato: Cristo è morto mentre eravamo ancora peccatori, ci ha visitati nella nostra schiavitù. La liberazione dalla morte, da una morte che non ci tiene più schiavi, da una morte che non è più parola definitiva, ma passaggio verso una vita senza fine, non è il premio per i giusti, ma un dono gratuito, talmente gratuito che ci viene donato mentre siamo ancora peccatori.
Gesù infatti lava i piedi ai discepoli mentre sono traditori: non solo Giuda, ma ciascuno di loro, ciascuno di noi, è colui che lo tradirà. Eppure Gesù si abbassa davanti a chi lo tradisce. Il perdono o è gratuito o non è. Il perdono è autentico solo quando perdona l’imperdonabile, altrimenti è giustizia o al più compassione. Gesù ci insegna la gratuità del perdono: mentre l’altro è ancora lontano, traditore, peccatore, e potrebbe anche rimanere tale.
Gesù si abbassa davanti a chi non lo merita. Lava i piedi a chi se li è sporcati per andare a vendere la vita. Gesù vede il suo volto deformato nell’acqua sporca della malizia dell’amico che lo ha tradito. In quel gesto non vedo né un gesto di umiltà né un gesto romantico, ma vedo il martirio della gratuità del perdono, il martirio a cui tutti siamo chiamati: vi ho dato l’esempio… Questo è il martirio del cristiano. Questa è la guerra con se stesso che deve combattere.
Se non vedessimo in questo gesto il martirio del perdono, non capiremmo perché Giovanni sostituisca questo gesto alla descrizione della cena: l’eucaristia è il martirio, in cui la vita è donata gratuitamente a chi non lo meriterebbe. Fare eucaristia, vivere questo sacramento, vuol dire sentirsi perdonati gratuitamente, mentre eravamo ancora schiavi del nostro Faraone, mentre eravamo ancora peccatori, per offrire la stessa gratuità a colui che mi uccide.
In queste notti che la liturgia rievoca non c’è mai solitudine. Sono sempre notti condivise. Notti in cui c’è la vita delle relazioni: c’è un popolo che mangia insieme o c’è una comunità che celebra. La liberazione, come perdono, non è mai un fatto individuale, ma coinvolge sempre anche gli altri. a volte i nostri cammini di riconciliazione sono semplicemente fantasie travestite da immagini spirituali: la riconciliazione si compie solo nella realtà di una comunità, nella quale si è disposti anche a morire. Il perdono non è mai un fatto personale, perché come singoli esistiamo solo nelle nostre fantasie. Siamo da sempre, inevitabilmente, insieme con altri.
E proprio perché non siamo mai da soli, abbiamo bisogno di muoverci per andare incontro agli altri. Così, camminando, ci sporcheremo di nuovo i piedi, con i nostri tradimenti, le nostre fughe, con i nostri sotterfugi, ma proprio allora potremmo chiedere a Cristo di lavarci i piedi di nuovo, ancora una volta.
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Leggersi dentro
– Qual è la notte in cui ti trovi e nella quale Dio ti sta già visitando?
– Quale ruolo giochi più spesso nei processi della vita: quello di giudice, di accusatore o di vittima?
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