Memoria e Futuro

Astenersi perditempo

di Marco Di Salvo 11 Giugno 2025

Puntuali come le zanzare all’inizio dell’estate, fastidiose come una radio che non smette mai di suonare la stessa canzone-tormentone, ecco che, al termine di ogni tornata elettorale, si ripresenta puntuale la grande liturgia nazionale: l’analisi dell’astensionismo. Con l’affluenza al referendum dello scorso fine settimana che galleggiava come… (trovate voi la similitudine) attorno al 30% e dopo che alle europee 2024 la partecipazione era scesa al 49,69%, la più bassa nella storia repubblicana, il coro degli esperti si è levato all’unisono per declamare le solite ricette miracolose su come riportare gli italiani alle urne.

Il copione è sempre lo stesso: si parte dalle statistiche allarmanti, dove il “partito del non voto” è ormai stabilmente il primo d’Italia, si passa per l’analisi sociologica degli astenuti – sempre dipinti come giovani disillusi o anziani sfiduciati – e si arriva alle immancabili proposte salvifiche. C’è chi suggerisce il voto elettronico come in Estonia, chi propone il voto per corrispondenza come in Germania, chi vorrebbe cambiare le sedi elettorali per non disturbare la continuità didattica. Non mancano i quorum variabili e altre diavolerie simili. Tutti rimedi che hanno il sapore delle classiche soluzioni tecniche a problemi politici.

Ma qui sorge il primo dubbio: davvero i partiti vogliono che gli italiani tornino a votare in massa? Perché se è vero che il 35,8% degli elettori risulta costantemente indeciso o astenuto secondo i sondaggi, significa che chi va alle urne rappresenta una percentuale sempre più prevedibile e controllabile. Un elettorato di fedelissimi è molto più gestibile di una massa imprevedibile di cittadini che potrebbero votare chissà cosa.

Nel 2022 fu pure prodotto l’ennesimo Libro bianco (frutto di una commissione guidata dal giovane ricercatore Franco Bassanini) che sta già lì a impolverarsi negli archivi ministeriali.

Intanto, però, quando si tratta di veri strumenti per incentivare la partecipazione – come una riforma elettorale che dia peso reale al voto o una revisione delle dinamiche tra governo e parlamento o, chessò, un vademecum per i referendum spedito a casa dei cittadini elettori- stranamente l’entusiasmo delle forze politiche svanisce.

Il paradosso più grottesco si è visto proprio durante i recenti referendum. La presidente del Consiglio Meloni ha annunciato pubblicamente che si sarebbe recata alle urne senza votare (vi risparmio l’ennesimo link a “Lo scrutatore non votante” di Samuele Bersani);  a destra si festeggiava e si teorizzava la correttezza costituzionale dell’astensionismo e a sinistra si ingolfavano i social con post su norme del 1948 e, però, grazie al regalo di Meloni, si trasformava una Caporetto in Vittorio Veneto (con i cervellotici calcoli sull’affluenza). Ecco svelato l’arcano: l’astensionismo è un problema solo quando non conviene.

Di fatto, quando interpellati, il 46% degli astenuti non indica nessuna motivazione specifica ma conferma la consolidata scelta di restare a casa. Forse perché davvero non sono interessati (anche questo un doloroso diritto) o, quelli che si credono più furbi, perché hanno capito che “il gioco è truccato”. La verità è che si discute molto di come far tornare la gente a votare, molto meno di come far sì che il loro voto conti davvero. Alla fine, aumentano quelli che credono che  l’astensionismo potrebbe essere l’unica forma di protesta politica che funziona ancora: quella che mette a nudo l’ipocrisia di una classe dirigente che predica partecipazione ma pratica esclusione. E la classe dirigente, sentitamente, ringrazia visto che, grazie all’astensione, la fatica e i costi della campagna elettorale si riducono al minimo.

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