L'architettura e noi
Bocconi, nella crescita indifferenziata di Milano un progetto anti-urbano
Nel merito di questo complesso della Bocconi a Milano, propongo una “lettera a un’amica”.
Cara Claudia,
un tempo la diversità delle parti urbane creava una unità riconoscibile.
Ora, nell’indifferenziato urbano si insinuano a volte le bizzarrie architettoniche, che a loro volta non “fanno città”: come il Campus Bocconi a Milano dello Studio giapponese SANAA, che riempie il lotto senza contribuire all’insieme, senza creare un evento rapsodico. Le trame e gli intrecci si sono scomposti.
Peraltro non sono certo i portati dell’urbanistica che possono guidare una visione, ma i fatti che formano la città. La città intesa come fatto riconoscibile, memorizzabile, vivibile al di là degli usi e delle funzioni, come insieme di luoghi che corrispondono l’uno all’altro: l’esperienza della città è nell’insieme coerente delle sue parti.
I luoghi erano un tempo riconoscibili in riferimento a una idea di città.
I luoghi sono invece diventati recinti: e questo è il fallimento dell’urbanistica. Anche i luoghi isolati erano un tempo emergenze rispetto a un tutto. A Pallanza sul lago, ove ora mi trovo, la chiesa romanica della Villa San Remigio è un luogo decisivo della storia del lago e richiama altri luoghi: isola in terra.
E uno dei centri della Città del lago, cioè quello di Intra, è un’altra emergenza; luogo al quale si arriva o approda, come San Remigio. In esso la chiesa di Santa Marta, centro nel centro eppure nascosta. Scusa per questi riferimenti evocativi, senza immagini.
Quella chiesa, con il suo pronao in rilevato rispetto al centro richiama altri luoghi analoghi, sparsi sulla collina: come la chiesa di Cossogno, chiesa di transito e di affaccio. Entro questo mondo i percorsi sono narrazioni che hanno assorbito il senso della storia e delle cose, degli avvenimenti.
Tu mi dici, cara Claudia, di Matisse, del suo lungo studio su Michelangelo che sostiene la sua pittura. Ed è proprio il rapporto tra queste cose, tra lo studio e l’azione, che porta all’approfondimento, alla riflessione, al progetto. Oggi è diverso, oggi è tutto in superficie, tutto diventa visibile, anche se non riconoscibile; ma, come tu sai, sarebbe meglio il contrario, perché l’arte di riconoscere è un’arte essenziale, anche se rara.
Parliamo di ciò che è visibile e di ciò che è meno visibile. L’opera collettiva era conosciuta più che riconoscibile: cioè immediata, senza mediazioni; il reciproco rapporto di ogni parte portava tutto in rappresentazione, teatro fisso del fluire delle cose, degli avvenimenti. Tutto ciò rendeva l’opera collettiva (il borgo anzitutto) trasmissibile.
La cultura della città, cioè delle grandi trame, dei grandi intrecci, si inserisce su quella precedente: una cultura ancora medievale, da fondaco. Si vedeva l’abitazione ricavata in qualcosa di preesistente, a volte adattata nelle costruzioni antiche, nelle mura: modi di essere e non di abitare, modi di adattamento, estremità del borgo. Ogni costruzione abitativa sorreggeva l’altra per formare il volto, il passaggio. Il lavatoio era più razionale della casa.
Eppure la casa era un luogo, con le sue articolazioni; precisa nelle sue parti meno quotidiane, quelle tramandabili di generazione in generazione; o quelle liturgiche, come la stanza matrimoniale. E poi la cucina, sospesa tra macchina e disposizione. Oppure la casa, se era più povera, aveva meno suddivisioni, era promiscua.
Tutto ciò era senso comune e su tutto ciò si è formata la cultura della città, che non sempre ha visto evolvere il senso comune in buon senso nella conclusione di un ciclo storico e nel suo processo evolutivo.
A un certo punto la crescita della città indifferenziata non è stata più commisurata con tutto ciò che la precedeva; è diventata un terreno conoscitivo autonomo, a volte fecondo, a volte disorientante: come in questo caso, dove all’indifferenziato urbano si risponde con un intervento sostanzialmente antiurbano.
Immagine di copertina da Flickr, Rob Oo, creative commons
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