Memoria e Futuro

Codici a sbarre

di Marco Di Salvo 17 Giugno 2025

Disclaimer: Gli articoli su questo tema sono quelli abitualmente ignorati o travisati. Questo non ci esime dal trattarlo, anzi.

Eccoci, ci siamo. La conversione in legge del decreto sicurezza (n.80/2025) ha coinciso, ma è un puro caso, con un’esplosione di violenza nelle carceri umbre, dove a Terni e Spoleto le celle sono diventate campi di battaglia. Motivi apparentemente futili – una distribuzione di vitto contestata, una doccia negata a un detenuto psichiatrico – hanno scatenato devastazioni, incendi e lanci di bombolette di gas contro gli agenti. Fabrizio Bonino del Sindacato autonomo polizia penitenziaria ha descritto ore di caos, con reparti di media sicurezza distrutti e telecamere divelte. C’è da dire che questo sindacato negli anni ha soffiato sul fuoco, raccontando in retorici comunicati stampa anche rivolte che non lo erano, per spingere sul lato della repressione. Dietro queste scintille, però, brucia una polveriera costruita negli anni: 588 detenuti ammassati in 422 posti a Terni, 498 su 456 a Spoleto, agenti in costante sottorganico (202 a fronte di 243 necessari). Un sistema che il nuovo decreto non allevia, ma irrigidisce.

L’articolo 415-bis introduce il reato di “resistenza passiva”, punendo con fino a 8 anni anche proteste non violente come scioperi della fame o rifiuto di rientrare in cella. Il segretario Gennarino De Fazio dell’Uilpa conferma che da quando il decreto è stato pubblicato, le tensioni sono esplose ovunque. È un cambiamento filosofico oltre che giuridico: come analizza il sito Sistema Penale, il testo opera un’inversione pericolosa, mettendo al centro “il tranquillo esercizio del potere esecutivo” anziché i diritti delle persone. La crudeltà inutile, per usare le parole di Silvio Orlando in “Palombella Rossa”, diventa sistema: si equipara il silenzio alla sommossa, trasformando ogni gesto di dissenso in un attacco allo Stato.

Intanto, il sovraffollamento nazionale raggiunge picchi allucinanti: 61.358 corpi stipati in spazi progettati per 44.999, celle con quattro o cinque persone, igiene inesistente. Sarò  crudele, ma mi annoio pure io a riscriverli questi dati, visto l’assoluto disinteresse sul tema da parte di chi ci governa, a turno, da più di trent’anni. Il Garante nazionale Irma Conti, in una tournée tra Puglia e Basilicata, ha documentato un sistema allo stremo, mentre il governo risponde con misure simboliche su uno dei temi più scottanti, quello dei bambini in prigione con le madri: quattro ICAM (istituti per detenute madri) in tutta Italia, nessun piano strutturale.

Eppure, si dovrebbe ricordare che la violenza genera violenza. Il ricordo di Melfi 2020 è vivido: 70 detenuti picchiati dopo una rivolta, costretti a firmare dichiarazioni false sulle proprie ferite. Chi lavora in carcere e con il carcere sa di cosa si parla: Susanna Marietti di Antigone vede nell’art.415-bis un tentativo di legittimare simili repressioni, seppellendo casi scomodi e minacciando testimoni. Quindi secondo costoro c’è una strategia di legittimazione da parte della politica di questi comportamenti. Un codice comune tra governanti e gestori di questi inferni in miniatura. Un codice a sbarre.

I detenuti reagiscono con l’unico linguaggio che sembra restare: quello della disperazione. A Modena, nel 2025, cinque morti per overdose da farmaci rubati durante una protesta contro la sospensione dei colloqui. A Cassino, scontri dopo il trasferimento di chi aveva denunciato maltrattamenti. “Quando lo Stato non ascolta, la violenza diventa l’unico messaggio”, ha sintetizzato tempo fa  amaramente Katia Poneti, Garante dei diritti della Toscana. I suicidi, intanto, segnano il calendario: dall’inizio dell’anno oltre 60, molti giovani sotto i 25 anni lasciati in celle-pollai senza supporto psicologico.

In questo scenario, le parole di Adriano Sofri risuonano profetiche: “In carcere non si va da nessuna parte. Non si cammina: si fa del moto, un moto senza luogo, un moto perpetuo e astratto, una ginnastica per il giorno in cui si ricomincerà a camminare, liberi”. Sofri, ha spesso ricordato come il carcere sia un microcosmo di sofferenza primaria, dove l’uomo è “illuminato a giorno” nella sua lotta per la sopravvivenza. E significativa è stata questa sua riflessione dell’altro giorno.

I codici a sbarre, allora, sono tre: oltre a quello succitato, quelli giuridici che marchiano il detenuto come “rivoltoso” o “terrorista”, cancellando la sua umanità, e quelli fisici delle celle sovraffollate, dove i corpi si impilano come merci in scaffali stracolmi. Mentre c’è chi discute di “Regime di massima sicurezza”, esacerbando i toni e facendo un regalo al governo e alla sua immagine “law and order”, la sfida è decifrare l’SOS che viene dalle galere: meno norme repressive, più ascolto. Perché ogni sbarra, oggi, è un segno grafico di un alfabeto che solo la disperazione sa leggere.

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