Memoria e Futuro
Due piedi, quattro scarpe
La politica contemporanea, si sa, ha trasformato le parole in strumenti di puro posizionamento, svuotandole di ogni significato concreto. Si può essere contemporaneamente per e contro qualcosa, dire tutto e il contrario di tutto, senza mai pagare il prezzo della coerenza. Questa perversione del linguaggio attraversa l’intero spettro politico: dalla destra che oggi abbraccia simultaneamente israeliani e palestinesi dopo decenni di militanza filo-palestinese, alla sinistra radicale che teorizza l’abolizione dei confini mentre sostiene la nascita di nuovi Stati nazionali. Il linguaggio politico è diventato una maschera che permette di apparire coerenti senza esserlo, di stare dalla parte (presunta) giusta senza scegliere davvero.
La presenza di Abu Mazen sul palco di Atreju rappresenta l’ultima tappa di una trasformazione che Giorgia Meloni ha raccontato come discontinuità, ma che in realtà è pura continuità mascherata. La destra italiana di origine fascista ha sempre avuto un rapporto privilegiato con la causa palestinese. Dal Movimento Sociale Italiano di Almirante fino ad Alleanza Nazionale di Fini, la tradizione della destra neofascista italiana era profondamente filo-palestinese, inquadrata in una visione terzaforzista e anti-imperialista che vedeva in Israele l’avamposto dell’egemonia americana in Medio Oriente.
La vera novità degli ultimi anni non è stata il mantenimento dei rapporti con i palestinesi, ma l’apertura parallela verso Israele. Meloni non ha cancellato la storia della sua famiglia politica, l’ha semplicemente ibernata dentro un gioco di equilibri andreottiani. Stare con due piedi in più scarpe, esattamente quello che Atreju ha messo in scena. La premier che la mattina riceve un ostaggio israeliano liberato da Hamas, il pomeriggio incontra Abu Mazen a Palazzo Chigi, la sera lo porta sul palco della festa del suo partito presentandolo come prova della propria credibilità internazionale. Gianfranco Fini in platea che si commuove, come se quella presenza confermasse la legittimità della tradizione missina anziché rivelare l’incoerenza della posizione attuale.
Abu Mazen, dal canto suo, ha giocato perfettamente la sua parte. Ha ringraziato Meloni e la leadership di Fratelli d’Italia, ha chiesto che l’Italia riconosca lo Stato di Palestina sapendo benissimo che questo riconoscimento è subordinato alla sconfitta di Hamas, quindi impossibile nell’immediato. Ha ottenuto visibilità internazionale, ha legittimato un governo di destra radicale che si vuole presentare come interlocutore credibile, e in cambio ha offerto una facciata di rispettabilità. Uno scambio tra attori politici che entrambi avevano bisogno di quella scena più di quanto avessero bisogno di cambiare qualcosa nella sostanza.
Questa perversione delle parole, dove tutti dicono tutto e il contrario di tutto senza che nessuno sia costretto alla coerenza, trova un parallelo perfetto nel numero ventinove di Jacobin Italia. La rivista, che spesso ho apprezzato per il rigore intellettuale, dedica il numero ai confini presentandoli come costruzioni artificiali da superare, dietro una copertina (e un titolo) che meriterebbe il premio Pietro Ammicca, per come lascia intendere oltre il sostenibile. Veniamo al contenuto. I confini non hanno nulla di naturale, sono il prodotto di rapporti di forza e dispositivi di potere. Fin qui tutto coerente con una prospettiva internazionalista. Il problema sorge quando identifica nella Palestina il caso emblematico dell’arbitrarietà dei confini e poi si schiera per la nascita di uno Stato palestinese, quindi per la creazione di nuovi confini.
O i confini sono costruzioni da superare, e allora bisogna proporre soluzioni post-nazionali, oppure i confini esistono come realtà politica necessaria e allora si fanno le battaglie per l’indipendenza nazionale. Non esiste una terza possibilità. Non si può teorizzare l’abolizione dei confini e contemporaneamente sostenere la soluzione due popoli due Stati, che è la forma più tradizionale e westfaliana di organizzazione politica possibile. Se davvero si crede nell’abolizione dei confini, bisognerebbe proporre un unico stato binazionale, confederazioni, forme di cittadinanza cosmopolita. Invece si sostiene la soluzione più conservatrice, quella che replica esattamente il modello che si dichiara di voler superare.
Questa contraddizione non è un dettaglio tecnico, è il sintomo di una sinistra che vuole mantenere una postura teorica radicale mentre sostiene praticamente soluzioni moderate. È un cosmopolitismo di facciata che serve più a marcare una distinzione identitaria che a proporre alternative concrete. La questione palestinese costringe a una scelta netta. Se si crede nell’abolizione dei confini, bisogna essere coerenti e proporre la dissoluzione sia dello Stato di Israele sia dell’idea di uno Stato palestinese separato, promuovendo forme di convivenza che superino il modello nazionale. Se invece si riconosce che i confini sono necessari per garantire autodeterminazione e proteggere identità collettive, allora si deve sostenere francamente il diritto del popolo palestinese a uno Stato sovrano, senza imbarazzo teorico.
Jacobin fa esattamente quello che fa Meloni con Abu Mazen. Dice una cosa e il suo contrario, mantenendo una posizione che suona radicale ma che nei fatti si allinea a soluzioni tradizionali senza pagare il prezzo della coerenza. Meloni dice di sostenere Israele ma ospita Abu Mazen. Jacobin dice di volere abolire i confini ma sostiene la nascita di nuovi Stati. Entrambi usano le parole come strumenti di posizionamento politico, non come impegni vincolanti con la realtà.
Il risultato è una politica dell’ambiguità dove tutti recitano le proprie parti senza che nessuno sia mai costretto a scegliere davvero. Meloni può dire di essere amica di Israele e dei palestinesi. Jacobin può dire di essere contro i confini mentre sostiene la loro moltiplicazione. Abu Mazen può chiedere riconoscimento a chi glielo nega. Tutti sono soddisfatti perché tutti hanno ottenuto la possibilità di apparire coerenti senza esserlo, di avere ragione senza pagare il prezzo della radicalità delle proprie posizioni.
Fino a quando non si recupera un rapporto onesto con il linguaggio e con la coerenza logica, continueremo ad assistere a questi teatrini. La verità è che né Meloni né gran parte della sinistra radicale vogliono davvero scegliere. Preferiscono stare nel mezzo, con formulazioni ambigue che permettono di accontentare tutti senza scontentare nessuno, di apparire dalla parte giusta senza mai correre rischi reali. Una politica delle parole vuote che perpetua l’esistente mascherandolo da cambiamento.
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